21 settembre 2016

“LA DARSENA È UNA BOIATA PAZZESCA!”

La giunta di sinistra e la ridondanza dei simboli


Dagli atri muscosi e dai fori cadenti il volgo disperso del centro sinistra da mesi è impegnato in un passaparola. Prima tra pochi timorosi e impauriti spiriti liberi subito accusati di essere la quinta colonna poi allargandosi via via a designer e architetti, ristoratori e aperitivomani, truzzi e radical chic, giovani e anziani, attivisti e flaneur, riformisti e massimalisti, il sussurro sommesso è diventato un fantozziano grido liberatorio, un ondata senza fine, ascoltata financo alla festa dell’Unità al dibattito sul libro di Livolsi: “LA DARSENA È UNA BOIATA PAZZESCA!”.

04marossi30fbE non ce l’hanno solo con il rifacimento in mattoncini rossi, le tettoie verdi, i mercati rionali farlocchi, la foresta di pali e segnali che allieta la piazza ce l’hanno con la retorica encomiastica che l’ha circondata e trasformata in un simbolo dell’era Pisapia. Il grido ha un significato chiaro: chiude definitivamente con l’idea che le sinistre unite al governo abbiano una qualità intrinseca superiore sia di tipo morale che amministrativo. Proprio la modestia del manufatto aperitivista consente di misurare lo iato estremo che è intercorso tra le aspettative di un popolo che festeggiò la vittoria arancione come un nuovo 25 aprile (sic) e le realizzazioni.

Questo rende felice i renziani della prima ora e quelli di complemento che possono prendere atto che non vi sono rimpianti per la stagione mitterandiana che li vedeva marciare a fianco dei vari Vendola, Fassina e Civati (a proposito che fine ha fatto?). Il domani è tutto al centro. Rende felice la gauche dei duri e puri che considera Renzi alla pari di Berlusconi, peggio di Craxi e comunque un subdolo infiltrato delle forze oscure della reazione. Rende felici gli arancioni che orbati della leadership prima di Pisapia poi di Ambrosoli (leadership ha in questo caso significato ironico) possono satollarsi di assessorati et similia e inneggiare a Sala come strumento principe dell’arancionismo renziano milanese, qualunque cosa esso significhi. Rende felice gli ex di ogni genere e tipo della prima repubblica, del formigonismo, del berlinguerismo, del rifondarolismo, del leghismo della prima ora tutti legittimati e riammessi all’ingresso principale.

Rende felice Sala che ha vissuto con insofferenza il peso dell’eredità, che ha pagato onestamente un prezzo al suo predecessore riproponendo quasi la stessa giunta con ciò dandogli atto di essere stata una giunta di brave e oneste persone ma imponendo in tutti gli uffici assessorili il cartello: “qui non si parla di politica, qui si lavora”. Rende felice gli aspiranti assessori/consiglieri che aspettano il prossimo rimpasto sapendo che gli attuali assessori sono destinati a Roma o alla regione per sostituire la nuova ondata di rottamati. Rende felice i candidati a presidente della regione, che consapevoli del fatto che il turno unico non consente ripensamenti e pentimenti, si apprestano a primarie in styleok korral”.

Rende felice probabilmente lo stesso Pisapia che si libera del clichè di erede di Guidobaldo Maria Riccardelli e può liberamente esprimersi sul referendum costituzionale ottenendo più insulti che consensi poiché la sua romantica visione di costruire un ponte tra le varie sinistre risulta essere non solo impraticabile ma del tutto indesiderata da chi sta su rive ormai opposte ma riacquistando un ruolo politico che aveva perso il giorno della rinuncia a ricandidarsi.

Certo aedi e cantori del buon tempo andato non mancheranno (in primis D’Alfonso nei panni tuttavia di un Francesco Ferrucci), pensionandi di vario genere che si arrabatteranno per riproporre alleanze e liste unitarie rispunteranno in occasione delle prossime elezioni ma il renzismo non fa prigionieri politici sopratutto perché sa che non farebbero prigioniero lui; il referendum non lascia scampo a nessuno, neanche nella politica cittadina. A dimostrarlo vi è il silenzio angosciato di assessori e consiglieri.

Non è la prima volta che a Milano un sindaco che lascia trascina con se il progetto politico, la vision che lo sosteneva, basti ricordare la successione Caldara Filippetti o quella meno traumatica Bucalossi Aniasi ma è forse la prima volta che accade senza tragedie e rimpianti quasi in allegria. Assistiamo a un divorzio consensuale tra massimalisti di vario genere e tipo che si apprestano a rifondare la gauche per l’ennesima volta e riformisti di vario genere e tipo che vogliono ristrutturare darsene senza però attribuirgli funzioni taumaturgiche e simbologie mistiche. Con il ridimensionamento dell’epica darsenesca inizia l’era di Sala, un sindaco albertiniano più simile a un amministratore di condomini che si affida a un consiglio di amministrazione che a un leader politico, del resto come è spesso capitato sono i sindaci non palingenetici che lasciano segni importanti nella città.

Tuttavia un po’ di nostalgia canaglia per le piazze gremite del giugno 2011 resta e non credo che il futuro della città possa essere delegato a una buona giunta di condominialisti anche perché la fatica maggiore per un amministratore di condominio è gestire l’assemblea dei condomini, ottenere il consenso e in questo il buon Sala non ha dato gran prova di sé ne alle primarie né in campagna elettorale.

Chiunque faccia una breve gita in Stazione Centrale o un po’ più in là alla stazione di Como sa che la gestione dei migranti, ammirevole per impegno e fraterna umanità mostra tutti i suoi limiti per il prolungarsi nei tempi, l’ampliarsi del numero e la rigidità dei partner europei e si sta trasformando nella questione politico elettorale principale. Per affrontarla non bastano le missive di Sala al governo, il cui testo può essere sottoscritto dal 85% dei sindaci d’Italia quale che sia la coalizione che li sostiene occorrono scelte politiche anche di rottura, anche con il governo nazionale come avvenne durante un altra stagione di profughi esattamente 100 anni fa.

Nel mio piccolo anch’io ho provato grande soddisfazione nel poter affermare “la darsena è una cagata pazzesca” (che è la filologica ripresa del testo di Luciano Salce), tuttavia mi inquieta un po’ il seguito di quella scena quando “gli ammutinati furono condannati a una punizione orrenda, da girone dantesco. Dovevano far rivivere almeno la sequenza principale del capolavoro distrutto tutti i sabati pomeriggio, fino all’età pensionabile”.

Non vorrei insomma tra un po’ rimpiangere il darseneo Pisapia.

 

Walter Marossi



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