21 settembre 2016

A PROPOSITO DI SCALI FERROVIARI

Il vero nodo sta nella Città Metropolitana e nella sua capacità di fornire visioni strategiche


Premetto che non ho la presunzione di avere la ricetta per proporre soluzioni ottimali circa la trasformazione degli scali ferroviari dismessi ma solo alcune considerazioni e suggerimenti. Innanzitutto lo scenario di crisi economica (e non solo) mi porta a sostenere che le modalità e gli assetti procedurali attraverso cui si sono trasformate negli ultimi anni le aree del territorio milanese non garantiscono più non solo la qualità degli spazi e delle funzioni proposte ma anche in certi casi la sostenibilità economica delle operazioni stesse. Solamente quest’affermazione meriterebbe un intero capitolo di una ricerca approfondita e capillare e quindi abbiate il buon cuore al momento di passarmela per credibile.

05pomodoro30fbIn secondo luogo se vogliamo per il prossimo futuro costruire un quadro strategico ragionevole per l’utilizzo del nostro territorio diventa ineludibile il bisogno di indagare, pensare e progettare la regione metropolitana e le diversi reti che la strutturano in modo più approfondito, articolato e sinergico.

Le aree degli scali ferroviari sono per loro natura posizionale e funzionale i potenziali nuovi nodi di una rete metropolitana in grado di ospitare funzioni attrattive pubbliche e private connesse direttamente a un efficiente sistema integrato di trasporto pubblico regionale. Solamente a livello di area metropolitana e regionale ha senso però parlare di infrastrutture e trasporto pubblico, di certi livelli di servizi, di housing sociale, delle grandi infrastrutture agricole e di verde pubblico che interessano il nostro territorio, di nuove aree produttive, di logistica, ecc. Le aree ferroviarie dell’Accordo di Programma, sotto questa lente, diventano allora parte di un grande sistema del patrimonio territoriale e non le uniche aree strategiche in gioco.

Per riavviare le attività legate alla trasformazione degli scali ferroviari mi sembra rilevante spostare l’attenzione verso la capacità di leggere e indagare in profondità la potenziale domanda di funzioni attrattive capaci da una parte di offrire attività lavorative per la popolazione dell’area metropolitana milanese e dall’altra di rigenerare territori dismessi o sottoutilizzati con quella qualità di spazi aperti, di servizi e di ambienti urbani che i cittadini si aspettano. Chiaramente, per un territorio come quello milanese, la ricerca e la costruzione della domanda dovrebbe essere svolta a livello internazionale come a livello locale.

Seguendo questo ragionamento è ovvio che bisognerebbe indagare con quali strumenti e assetti regolativi e procedurali si possano intercettare quelle che ho chiamato sopra funzioni attrattive.

Un’altra considerazione riguarda il progetto urbano che, secondo me, dovrebbe essere insieme alla risposta della domanda, il vero punto di confronto con la cittadinanza e di dibattito concreto. Non sono le regole della trasformazione o gli indici di edificazione a determinare le possibili qualità degli spazi edificati e degli spazi aperti, bensì le capacità dei diversi attori coinvolti nel definire visioni territoriali e scenari progettuali in grado di attrarre domande di funzioni qualificate e nel definire nuovi assetti progettuali.

Se l’Accordo di Programma in itinere deve essere solamente uno strumento lasco per dire che i milanesi immaginano e ambiscono a una città più verde, con poche strade, poche case e tanta qualità allora basterebbe un generico e veloce documento (tre mesi) in cui si raccontano e definiscono le priorità e le aspettative della città dalle trasformazioni. Se diventa invece un complicato e lungo processo in cui definire le quantità in gioco, pubbliche e private, ma soprattutto i valori delle aree per permettere la vendita, allora diventa tutto più complicato e fuorviante.

In primo luogo perché si ragiona in astratto senza avere idea delle risposte del mercato. Proviamo a immaginare che su uno scalo dove sarà previsto tanto verde e poca edificazione un domani arrivi sul tavolo dell’Amministrazione un bellissimo progetto urbano che prevede poco verde e una densità abitativa importante. I casi sono due: o si rifiuta perché non è in sintonia con gli assetti normativi previsti e si perde l’occasione di riqualificare l’area; o si è costretti ad affrontare una variante dell’Accordo di Programma dove il rischio di perdere gli operatori che hanno fatto la proposta è altissimo visto il tempo che richiederebbe. Lo stesso rischio si correrebbe nel caso inverso; che su un’area dove è prevista un’alta densità edificabile venga presentato un progetto con una vastissima area a verde e servizi e poca densità edificabile. In questo caso il valore dell’area di riferimento non sarebbe più consono con le aspettative previste e salterebbe comunque l’operazione.

In secondo luogo perché la discussione vera sulla trasformazione delle aree avverrà obbligatoriamente a livello di pianificazione attuativa che in teoria può non essere sbagliato; allora non facciamo finta di parlare di partecipazione in questa fase e se nel frattempo l’area metropolitana milanese non si dotasse di capacità di visione futura con strumenti e progetti di area vasta con previsioni di medio – lungo periodo sui principali temi strutturanti il territorio, in grado di guidare e fornire le linee guide indispensabili alle singole trasformazioni, allora succederà com’è accaduto fino adesso; che si speri di incontrare un “bravo operatore”rimandando a un altro capitolo quali possano essere le caratteristiche di un buon operatore.

Forse Milano merita di più.

Paolo Pomodoro

 

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