7 dicembre 2009

BANDA LARGA: PERCHÉ RESTARE INDIETRO


Uno spettro si aggira per l’Italia: è quello della banda larga. Tanto per intenderci, parliamo di Internet veloce, quello che di solito è garantito dalla cosiddetta Adsl, che richiede l’uso di un modem e la firma di un contratto oltre a quello telefonico. Nella versione ormai considerata minima, ha una velocità di 640 kbit/sec, con la quale si fa molta fatica a scaricare immagini fisse, ancora peggio se in movimento, come nei brevi video che ci propone, in “streaming”, anche Arcipelago Milano.

Circa un 5% della popolazione italiana (digital divide) non ha accesso neppure a questa modalità minima, perché il servizio Adsl non arriva fino a casa loro. C’è ancora un certo numero di centrali locali Telecom cui non arriva la fibra e altre in cui non sono installate le apparecchiature Dslam per dare l’Adsl. E non si tratta solo di disperse località montane o rurali: talvolta si tratta di isole sfortunate all’interno di aree fortunate. Ma le società telefoniche non hanno ritenuto di colmare queste lacune perché di tratta di aree, come si dice, “a fallimento di mercato”, in cui la domanda non giustificherebbe l’investimento.

Questo non vuol dire che solo il 5% della popolazione italiana non abbia un contratto Adsl, anzi: è solo il 20% che ce l’ha. Infatti l’Italia è al 17° posto nell’Europa a 27, quattro punti sotto la media Ue ma 7-8 punti sotto i principali paesi europei e addirittura 10-17 punti sotto i paesi nordici.

Il cosiddetto “piano Romani”, dal nome del vice-ministro alle Comunicazioni Paolo Romani, prevede una spesa di 1400 milioni per colmare quel “divide”. Ma 800 di quei milioni sono stati appena congelati da una riunione del Cipe, cioè del governo, del 4 novembre scorso, che per la banda larga italiana non si può considerare certo “giorno della vittoria”. Alcuni ministri come Brunetta si sono affannati a tranquillizzare tutti promettendo uno stanziamento “per tranche” a partire dalla settimana successiva. Cosa che non è avvenuta. Più prudente il vice-ministro Romani ha detto che una parte di fondi sono già nella disponibilità del governo e verranno rapidamente impiegati. Ma a cosa ci porterà il piano Romani? Ammesso che funzioni e in tempi brevi, avremo in Italia una disponibilità al 100% dell’Adsl minimo, quello con cui facciamo fatica a vedere i video di Arcipelago Milano.

Mentre l’attenzione del governo è dunque rivolta al 5% dei “digital poor“, langue il famoso progetto di banda ultralarga (denominato NGN, da Next Generation Networks) che dovrebbe servire al 20% degli attuali utenti Adsl, ma in prospettiva al 40% degli italiani che usano Internet, oltre che a tutte le imprese oltre i 10 dipendenti che hanno già quasi tutte le banda larga, cioè i “digital rich“.

Ma in cosa si distingue questa banda larga NGN da quella Adsl che arriva già al 95% degli italiani? L’Adsl è una tecnologia applicata al rame, con la quale non si possono superare i 15-20 Mbit/s. Sopra a queste velocità, fra i fili in rame si crea diafonia e il segnale degrada. Già oggi, come abbiamo visto, la minima velocità dell’Adsl, di 640 kbit/s, consente modeste applicazioni. E infatti molti utenti Adsl hanno fatto contratti per avere da 7 a 10 Mbit/s, cioè da 10 a 15 volte tanto. Le NGN sono basate sulla fibra ottica e non sul rame e con la fibra fino a casa dell’utente permettono di superare largamente i 20 Mbit/s, fino a 100 e oltre. Cioè consentono non solo la visione di immagini in movimento come nei film, ma anche addirittura quelle in alta definizione, come nella nuova televisione HD. In ogni caso la domanda di banda è crescente, sia per usi aziendali che residenziali e si tratta del tipico caso, noto in economia fin dai tempi di Say, di offerta che crea la sua domanda. Il problema è che le NGN costano in termini di investimento, da 6-7 miliardi per coprire il 60% dell’utenza telefonica italiana (così stimava Telecom un paio di anni fa), fino al doppio per arrivare a tutte le case e le aziende italiane. Anche se poi l’investimento rende, sia in termini di maggiori ricavi (ma non troppo perché i prezzi diminuiscono), sia soprattutto in termini di risparmi di costi di manutenzione (servono meno centrali).

Ma l’investimento nelle NGN non procede (per la verità non solo in Italia), mentre galoppa in Giappone e Corea, oltre che nella solita Finlandia. Anzitutto perché le Telecom europee, Italia in testa, sono molto indebitate e sono riluttanti a avventurarsi in investimenti robusti con ritorni nel medio periodo. In secondo luogo perché vorrebbero un quadro regolatorio più favorevole (che chiamano “vacanza regolatoria”), cioè si chiedono: tocca a noi fare questo investimento per poi offrire l’accesso ai nostri concorrenti su un piatto d’argento? Dateci carta bianca sulle NGN e noi investiamo. Il che vuol dire lasciare ai concorrenti la vecchia rete in rame e la concorrenza, tanto faticosamente raggiunta, andrebbe a farsi benedire, cioè si tornerebbe all’aureo periodo in cui la rete italiana si costruiva in condizioni di monopolio. Quella stessa rete che ora, a Telecom Italia privatizzata, viene rivendicata dagli azionisti di Telecom (anche giustamente) come una proprietà inalienabile. D’altra parte su questa strada, della “vacanza regolatoria”, l’Autorità AGCom non ci sente proprio e quindi la strada non è percorribile.

Un’altra strada, di cui si parla molto in questi giorni, è quella di una società separata per la nuova rete, finanziata prevalentemente dalla Cassa Depositi e Prestiti, cui partecipino anche i concorrenti di Telecom e cioè Vodafone, Wind e Fastweb. La nuova rete sarebbe comunque connessa con la vecchia rete Telecom perché sarebbe uno spreco duplicare anche le dorsali in fibra per tutta la penisola. Pare che a questa rete siano interessate le aziende televisive, Rai, Mediaset e SKY, che troverebbero una strada in fibra di alta capacità, alternativa alla rete televisiva, senza dover ricorrere a decoder o parabole. Ha ragione però Telecom a dire che si tratterebbe di uno scorporo parziale, sia pure dilazionato nel tempo. E nessuno può obbligare gli azionisti di Telecom a scorporare la loro rete, come invece è avvenuto a suo tempo per la rete elettrica di Enel (ora Terna), sancito da un obbligo legislativo.

Che fare allora? A meno di qualche colpo di mano societario, incoraggiato dal governo (com’è già avvenuto per Alitalia), una strada alternativa ci sarebbe: dare la rete NGN alle aree metropolitane, le più fameliche di banda, attraverso società locali che posino e gestiscano reti locali in fibra, affittandole spente agli operatori, a tutti gli operatori, Telecom compresa. A Milano questa società esiste già e si chiama Metroweb: sciaguratamente, dopo la vendita a un fondo italo-inglese, ha affittato la sua rete a Telecom e quindi la concorrenza è andata a farsi benedire.

Queste reti locali si connetterebbero con le reti nazionali esistenti pagando la loro brava tariffa di terminazione, come oggi fanno già le varie Vodafone, Wind e Fastweb. Ci sono società estere che hanno fatto i conti e sono pronte a finanziare queste iniziative locali. Il vice-ministro Romani avrà voglia di un’operazione del genere, per dare banda davvero larga ai “digital rich”, oltre che banda semi-larga ai “digital poor”?

Franco Morganti



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