21 settembre 2016

musica – IL FLAUTO MAGICO


Durante questo mese di settembre la Scala ha messo in cartellone, con oltre 10 recite, il Flauto Magico di Mozart affidandone la realizzazione alla propria scuola di musica e cioè alla “Orchestra e Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala” e ai solisti della “Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala”, istruiti e guidati però da due grandi maestri di esperienza e di fama internazionale, vale a dire da Peter Stein per la regia e da Ádám Fischer per la direzione d’orchestra.

musica30fbOvviamente è un grande merito del Teatro quello di offrire ai giovani che frequentano la propria Accademia, compresi i cosiddetti “tecnici del palcoscenico” (scene, costumi, luci, ecc.) l’opportunità sia di lavorare con grandi professionisti (e non ricevere da loro solo qualche lezione) sia di cimentarsi in uno spettacolo vero e proprio (anziché in un saggio scolastico) davanti a un pubblico di usuali frequentatori dell’opera lirica a uno dei suoi massimi livelli. Infatti l’opera è stata preparata, sia dal punto di vista scenico-teatrale che dal punto di vista musicale, con cura di gran lunga superiore a quella in uso con solisti professionisti e con l’orchestra e il coro del teatro, con il sottinteso di chiedere al pubblico un po’ di benevolenza.

Come è noto il senso ultimo del Flauto Magico è un po’ misterioso, potrebbe anche dirsi vagamente ambiguo. Scritto da Mozart negli ultimi mesi di vita, insieme a quel bizzarro personaggio che era Emanuel Schikaneder (attore, poeta, drammaturgo, impresario, forse anche un avventuriero), per un teatro di periferia (il Theater auf der Wieden o “teatro delle erbacce”), in forma di Singspiel (cioè in parte recitato e in parte cantato) e in lingua tedesca (per Mozart era la terza “deutsche Oper”, dopo “Il ratto dal Serraglio” e “L’impresario teatrale”, a fronte delle 18 scritte in italiano), il Flauto magico è solo apparentemente una favola, in realtà è un’opera illuminista e rivoluzionaria (peraltro la Bastiglia, a Parigi, era stata presa solo due anni prima) ma soprattutto profondamente massonica, pensata in un momento in cui la massoneria era diventata, per Wolfgang, fonte di appartenenza e di identità: ci credeva molto e vi si dedicava con grande passione. Da questo punto di vista, al netto del comico e del buffo che vi sono disseminati, l’opera potrebbe esser letta quasi come un “oratorio” o una “sacra rappresentazione”.

Peter Stein, quasi per semplificarla a scopo didascalico, ha dato maggior peso all’aspetto fiabesco dell’opera, rendendolo ancor più evidente con le scene semplici e coloratissime (dotate di grande mobilità quasi si trattasse di uno spettacolo di burattini) e con una serie di rumori (il temporale, l’apertura delle porte del tempio, gli stessi cambi di scena) che enfatizzavano i sentimenti infantili di paura e di ansia dei personaggi. E fin qui nulla da obiettare, se non che forse l’opera ha perso un poco della sua sacralità; ciò che invece non è stato per nulla convincente è la parte squisitamente musicale.

Dire che la direzione d’orchestra è stata moscia è già essere generosi. Sembrava che Fischer non avesse alcuna fiducia nell’orchestra e chiedesse ai giovani musicisti dell’Accademia una lettura prudente e sommessa, come per nascondere temute magagne o come per una sorta di eccessiva soggezione nei confronti del palcoscenico. Ha lasciato che il coro, ben istruito dal suo direttore Alberto Malazzi, si esprimesse con pienezza e ha invece sacrificato l’orchestra che – proprio perché nel Singspiel la parte recitata (ovviamente in tedesco!) è molto ingombrante – avrebbe dovuto essere ben sostenuta per mettere in adeguata evidenza le meravigliose parti strumentali dell’opera. È accaduto dunque che la forza delle scene, la vivacità della recitazione (non solo dei cantanti, ma anche dei coristi) e la grande chiarezza del parlato – tutte qualità di cui si deve dare atto sia al regista che ai cantanti/attori – abbiano prevalso sulla musica e l’abbiano relegata al ruolo di sottofondo o al più di accompagnamento.

(Un anno fa in questa rubrica scrivevo di “un pessimo concerto al Conservatorio della strombazzata orchestra dei Wiener Symphoniker diretti dall’ungherese Ádám Fischer, che ha eseguito le tre penultime Sinfonie di Mozart … pessimo sia perché modesta è l’orchestra (1)… sia perché Adam Fischer appartiene a quella folta schiera di direttori che quando si muovono recano più danni che benefici e lo fanno più per far mostra di sé alla platea che per dare utili indicazioni al palcoscenico. Povero Mozart, appiattito e omogeneizzato, senz’anima, solo con l’aspro gusto del contrasto continuo e banalizzato fra i forte sempre fortissimi e i piano sempre pianissimi …”.  Evidentemente non mi ero sbagliato!).

Non si può invece non tributare un elogio particolare allo straordinario Till von Orlowsky che nella difficile parte di Papageno ha tenuto in piedi l’intera opera; fedele al concetto di Zauberoper, della “opera magica”, il ventottenne baritono tedesco più che allievo dell’Accademia scaligera sembrava allievo di quel mitico Ferruccio Soleri che girò il mondo con l’indimenticabile “Arlecchino servitore di due padroni” di Strehler. E altrettanto bene si deve dire della venticinquenne soprano egiziana Fatma Said, dolcissima Pamina con grande presenza scenica e una bella voce matura ed educata. Qualche voce ha invece funzionato meno bene (non è stato convincente il basso Martin Summer nella parte di Sarastro, che non riusciva a scendere al di sotto della estensione baritonale, ma ancor meno lo è stata la soprano Yasmin Özkan nei meravigliosi acuti della Regina della Notte) ma tutti hanno recitato benissimo.

Stranamente il pubblico si è spaccato più del solito dividendosi nettamente: da una parte gli entusiasti, dall’altra i delusi (molti applausi ma anche qualche rumoroso dissenso), pochi i dubbiosi. Tuttavia se questo è l’inizio di un percorso volto a premiare i migliori allievi dell’Accademia non possiamo che incoraggiarlo. L’anno prossimo sarà la volta di Hänsel und Gretel, di Engelbert Humperdink, con la regia di Sven-Eric Bechtolf e con l’orchestra affidata a Marc Albrecht, e speriamo che vada ancora meglio.

Paolo Viola

 

(1) I Wiener Symphoniker non sono i Wiener Philharmoniker!

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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