7 dicembre 2009

POLITICA E CULTURA: RIPARTIRE DA MILANO


“Quando sento parlare di cultura istintivamente metto mano alla pistola” è da anni la frase di riferimento per la maggior parte della “nuova” classe dirigente padronal-leghista che ha occupato il governo di Milano da più di un quindicennio: figuratevi quale può essere l’istintivo riflesso di una città così malridotta quando si parla di “cultura politica”, che in passato la pistola ha portato a tanti, troppi suoi cittadini a impugnarla tragicamente sul serio.

Si dice sempre che Milano è il laboratorio politico nel quale si anticipano le tendenze e i fenomeni politici dell’intera Italia dal fascismo al berlusconismo passando per il riformismo cattolico e socialista: sembrerebbe quasi che il tessuto sociale e politico milanese sia talmente fertile da produrre getti d’iniziativa in maniera quasi inarrestabile.

Non credo affatto sia così non tutti questi fenomeni politici sono germogliati da qualche angolo del “laboratorio” milanese: la Lega, per esempio, è considerata come un riporto di “quei che vengon giù con la piena” al punto che nei momenti di maggior successo elettorale è arrivata ad avere il 10% dei voti al quartiere S Leonardo e, duecento metri oltre, il 30% nei comuni di confine come Pero con composizione sociale pressoché identica, quasi come una truppa di occupazione che si ferma fuori dalle mura prima di attaccare l’ultimo baluardo ostile; né il berlusconismo politico ha reali caratteristiche distintive ambrosiane, al di là della collocazione fisica del quartier generale, tanto che si occupa del Comune solo dopo essersi affermato a livello nazionale e lo fa sempre con gente arruolata alla bisogna sconosciuti alla città politica e no, come Albertini e la stessa Donna Letizia.

Negli anni sessanta- ottanta il dibattito sulle idee partiva dalle Università, dai Circoli e club, dalla redazione dei giornali e coinvolgeva partiti e sindacati che erano il sistema nervoso della città, con sezioni territoriali e di fabbrica che rappresentavano i terminali di ascolto e allo stesso tempo la struttura di selezione della classe dirigente politica milanese. Ogni giovane, ogni nuovo milanese acquisito che volesse impegnarsi civilmente conosceva le “porte d’ingresso” al sistema politico e aveva la teorica possibilità di accedervi: il “cursus honorum” di qualsiasi democristiano, socialista, comunista ma anche missino o laico repubblicano, cominciava con anni di militanza di base a suon di manifesti e ciclostile, passando per serate trascorse a discutere negli scantinati di Quarto Oggiaro o in quelli più raffinati di via Brera per giungere all’accesso, mai improvviso e imprevedibile, a Palazzo Marino.

Per buone o cattive ragioni, cui non è certo estraneo il sistema elettorale basato sulla persona instaurato a tutti i livelli, oggi viviamo il tempo nel quale la notorietà si acquisisce in modo diverso e si arriva direttamente alla fine del “cursus honorum” senza aver fatto alcun “cursus studiorum”, affidando la verifica delle capacità politiche effettive interamente alla fase “on the job”: parrebbe essere solo la casualità che determina la buona qualità media della prima giunta Albertini rispetto alla cattiva della seconda e alla pessima di quella Moratti.

Eppure la città discute e si appassiona eccome per la politica: nelle case, sui mezzi pubblici, nei bar è sempre l’argomento al secondo posto dopo l’Inter e il Milan (anche loro peraltro a firma Berlusconi e Moratti, a ben vedere), cosi’ come sono al secondo posto come frequentazione, dopo i siti porno, blog e testate politiche, sociali o semplicemente di informazione e discussione sui quartieri e la città. E’ come se nell’era delle reti la politica si sia “nebulizzata”: si vede, si respira, si alza e va per poi tornare, ma non si riesce a “toccare”, a “condensare”.

Ma la voglia di consolidamento è nell’aria, lo dimostra il fatto che il fenomeno avviene in ogni occasione possibile, alla presentazione di un libro, di un film, con la fidelizzazione a programmi televisivi stabili come “Iceberg” di Telelombardia. Non trovando più l’indirizzo del partito Dc o Psi si è pensato che ciascuno potesse farsi il suo partito personalizzato, come in una delle improbabili realizzazioni di Muciaccia alla trasmissione dei bambini “Art Attac”, assistiamo a un’affannosa ricerca di centri di gravità permanente su un blog personale o in Youtube, ma anche nella folla che invade S Maria delle Grazie per ascoltare Sermonti che legge Dante.

E’ una situazione quasi paradossale, la domanda politica esiste, è molto chiara e segmentata, ma manca l’offerta, dal momento che i nuovi “fornitori” non sono percepiti né come stabili né come affidabili. E’ un’opportunità per chi vuole intraprendere strade nuove in politica, è una minaccia per chi detiene le leve del potere ed è abituato a non essere disturbato troppo.

Franco D’Alfonso



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