7 dicembre 2009

LA CULTURA A MILANO


“Se tu bagni il tuo piede in un lago/di un paese chiamato Cultura/poi tirar dietro il piede è assai dura/ma è più duro imparare a nuotar./ Ed è pieno di barche lucenti/ con pennacchi e con mille bandiere/ tu ti accosti vai lì per vedere/ e ti accorgi che fondo non han./ E tu t’agiti, gridi ti muovi/ e gli urli che stanno affondando/ ma ti guardano tutti ridendo/ non è cosa che faccia per lor.” (Paolo Pietrangeli, 1969)

Il termine cultura è assai elastico, soprattutto se riferito alla cultura di una città. Si va dalla definizione dei redattori di quotidiani che affastellano molte cose disparate nella sezione “Cultura e tempo libero”, all’idea degli antropologi moderni, forse non ancora del tutto ben digerita, per cui la cultura è l’insieme dei simboli e dei prodotti materiali elaborati da una data società. Diversamente dall’informazione, di cui grazie al genio dell’ingegnere americano Claude Elwood Shannon, abbiamo dal 1948 una misura precisa, senza la quale difficilmente si sarebbe potuto sviluppare il gigantesco sistema di comunicazioni in cui siamo immersi, non possediamo una misura della cultura.

Mettere un po’ d’ordine è quindi necessario, non tanto per pignoleria professorale, ma perché spesso le parole molto ripetute pesano di più dell’aria che spostano. Per esempio data la predominanza della preparazione umanistica (a scapito di quella scientifica) nelle élites italiane, per “cultura” si intendono automaticamente i tratti monumentali di una città o le opere letterarie o artistiche e solo di recente si è cominciato a capire che una fabbrica vuota, un macchinario imponente come un ponte-gru oppure manufatti piccoli come una fontanella in ghisa, così come le libere scritte dei writers sui muri, appartengono al patrimonio culturale di una data città. Non si tratta di considerazioni senza conseguenze: si pensi solo all’inclusione o meno di un determinato oggetto nei bilanci dei patrocinatori – comprese le amministrazioni pubbliche. Spesso il campanile mediocre di una chiesa sconsacrata ottiene più facilmente i fondi per il restauro di un’elegante ciminiera di fabbrica, foss’anche opera di un famoso architetto.

Certo non dobbiamo buttare a mare distinzioni importanti come quella tra cultura alta e cultura di massa, ma si deve prendere atto che i rapporti tra questi livelli sono cambiati; molte delle istituzioni che elaborano o trasmettono la cultura, dalla scuola all’università, alle accademie ai teatri, musei e così via sono state create in società in cui la maggior parte della popolazione era normalmente esclusa dall’accesso a un’informazione che non riguardasse quella conoscenza che gli antropologi definiscono “locale” e che oggi viene romanticizzata, ma che era assai limitata. Sarà pur bello il dialetto, però chi parlava sempre e solo quello non aveva il vocabolario del Porta, ma usava solo qualche centinaio e forse decina di parole. Così, vista con gli occhi del cittadino che la trapassa in automobile o in treno, la campagna suscita nostalgie letterarie, ma si è completamente dimenticato che “la tera l’è dura” ed è questa la ragione per cui chi può, appena possibile la lascia.

Oggi queste istituzioni attraversano una crisi profonda perché i rapporti si sono rovesciati e tutte si trovano a operare in una società non povera, ma densa, anzi densissima, d’informazioni. Viviamo, come si dice, in una “società della conoscenza”, avendo però del tutto trascurato il piccolo particolare che alla radice della nostra (e mi riferisco al mondo cristianizzato) mitologia siamo stati avvertiti che la mela del sapere può essere amara assai. E così i cosiddetti maitres a penser si strappano le vesti: Asor Rosa, ne Il grande silenzio, si lamenta che gli intellettuali non siano più ascoltati e Gillo Dorfles (in una curiosa pubblicazione L’Europeo del 4 Dicembre che in copertina si propone di “rottamare la città”, ma poi all’interno è letteralmente strabordante dell’usuale retorica iconica sulla città costruita) riprende una vecchia lamentela contro l’eccesso di informazioni. Eppure si tratta, in questo come in altri casi, di persone ascoltate, ascoltatissime, che contribuiscono essi stessi non poco alla massa totale delle informazioni.

Non condivido queste lamentele, ma ne capisco le ragioni che si possono facilmente riassumere in ciò: la nostra società non ha ancora imparato a trattare in modo appropriato la grande massa di informazioni che produce. Ci sta tentando, ma per vie che, essendo nuove, non sono spesso neppure viste dagli antichi nati e cresciuti in altri schemi. Sostanzialmente la cultura sta subendo un processo traumatico di democratizzazione e molti intellettuali abituati a vivere in condizioni di monopolio o oligopolio si sentono spodestati e, quando si è tentato di ampliare l’accesso alle istituzioni tradizionali, soprattutto la scuola e l’università, l’urlo di quelli che Brassens chiama les croquants è stato unanime e si è gridato al degrado. Così quelle istituzioni hanno continuato a impoverirsi e i molti che ne sono rimasti esclusi si sono rivolti altrove: un altrove dove non vi è limite al degrado, ma dove si elabora anche un nuovo di straordinaria qualità. Chiunque bazzichi un po’ nei meandri della rete sa cosa voglio dire.

A me sembra che Milano stia affrontando male questo passaggio che investe tutte le città del mondo e mi domando quale sia il freno che la nostra città così evidentemente pone alla vitalità delle sue forze innovative. Credo che vada trovato nell’inguaribile perbenismo della sua classe dirigente, che dai tempi della scapigliatura rigetta (almeno fin che non può essere mercificato) lo spirito di trasgressione, una componente importante dell’innovazione culturale. Non dimentichiamo che, come racconta Tullio Kezich, “al cinema Capitol di Milano, il pubblico non pagante salutava la pellicola di Fellini con fischi e grida di riprovazione. “Basta! Schifo! Vergogna!”, urlano dalla platea verso la fine della proiezione. All’uscita dalla sala cinematografica Marcello Mastroianni viene apostrofato con termini come “vigliacco, vagabondo, comunista”[questa qui la conosco, purtroppo, ndr.] Uno sputo raggiunge Fellini, che cerca di reagire, ma è trascinato via dagli amici.”. E il sommovimento fu tale che il prefetto pensò di sospendere le proiezioni. Del resto, più o meno in quegli anni, si discuteva ancora seriamente nei salotti borghesi se il jazz fosse musica o solo rumore: fortunatamente c’era Roberto Leydi che ci salvava con le sue mattinate domenicali di educazione musicale al cinema Mignon.

E, tanto per dare anche un saggio dell’apertura nel mondo universitario, mi ricordo distintamente una discussione feroce con un allievo di Paci che sosteneva che la fotografia non era arte perché usava un mezzo tecnico. Risento alcuni degli stessi ragionamenti, oggi, nelle discussioni sui writers. Un mio amico spiritoso diceva di una certa sinistra milanese che si lanciava fino alla destra socialdemocratica, che era come le signore della buona borghesia che al massimo arrivavano a Modigliani, ma inorridivano davanti a Picasso o Braque. Solo negli anni sessanta Milano produsse un ambiente cosmopolita (sia pure con tutte le pruderies denunciate da Bianciardi) capace di attrarre cultura ma, mentre tutti dicono che gli intellettuali venivano a Milano perché trovavano un ambiente favorevole, quasi nessuno suggerisce la spiegazione inversa e cioè che l’ambiente vibrante di quel periodo era anche il prodotto di tutte quelle intelligenze che venivano da fuori. Era un periodo di crescita demografica mentre oggi è un periodo di stagnazione e, in una popolazione che ristagna o diminuisce, cosa succede? Aumentano i vecchi: infatti a Roma ci sono circa 50 mila giovani in più (in tutto 150mila persone in più che a Milano con meno di 65 anni) mentre Milano ha 50mila anziani più di Roma. Non è poco.

Ma è anche una questione di stile e di inclinazioni: anni fa mi è capitato di sostituire il Rettore di UNIMIB nella Commissione cultura dell’Assolombarda, una denominazione che di per sé avrebbe anche potuto apparire ossimoronica, ma in quel periodo il business aveva scoperto la cultura, pensando di poterci fare soldi. Contemporaneamente uno svelto economista di Pittsburgh aveva appena inventato un prodotto di grande successo, convincendo le élites locali di tutto il mondo che era molto più chic occuparsi di creativi che non di vecchietti o di poveri. E così anche a Milano tutti si erano messi a fare ricerche sulla creatività, ma il Presidente dell’Assolombarda, un buon borghese milanesone, si trovava a disagio e, ogni due per tre, cercava di esorcizzare la situazione ripetendo a destra e manca che poi per essere creativi non occorreva portare l’orecchino. Capirete i poveri Modigliani o Kerouac, per non parlare dei Bukowski o anche solo gli hackers della train room di Cambridge, che ospitalità possono trovare in città. Creatività sì, ma con juicio, Pedro. Questa concezione di una cultura buona quando fa far soldi, ma fastidiosa quando è troppo contro il perbenismo è espressa al meglio nel blurb di presentazione del già citato numero dell’Europeo “L’impressione, sfogliando il numero, è quella di un viaggio nella storia delle città raccontato con materiali iconografici straordinari e punti di vista contemporanei. Ospite d’onore: il brand Mini e il concorso di design lanciato dalla casa automobilistica per stimolare la creatività sul tema dell’ambiente”. Diceva Pierre Bourdieau di questo tipo di atteggiamento verso la cultura: “pas d’ fric pas d’idées “.

Guido Martinotti



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