6 luglio 2016

MILANO E LA GEOMETRICA POTENZA DELLA PREFERENZA

Pregi e difetti del sistema. Il ritorno ai tempi di Tanassi


La nuova giunta ha un’evidente caratteristica: i suoi membri sono stati scelti considerando il risultato elettorale in preferenze. Majorino, Maran, Del Corno, Scavuzzo, Rozza, Granelli, Tajani, Guaineri, financo Lipparini sono assessori grazie alle preferenze ottenute. Più in generale i partiti, i movimenti civici, i gruppi di opinione politica milanesi dopo queste elezioni si riorganizzano e ristrutturano in città in funzione del consenso personale ottenuto. É un criterio oggettivo: pochi i nominati molti i preferenziati.

02_marossi25FBNon è una novità ma un ritorno al passato, agli anni ’80 quando non si muoveva foglia senza compulsare le preferenze. La novità sta nel fatto che allora il sistema dei partiti poteva operare con il contrappeso degli iscritti e dei congressi che talvolta davano risultati diversi, cosicché molti recordman di preferenze non avevano peso politico e dovevano acconciarsi a fare i gregari seppur di lusso.

Del resto la (soi disant) seconda repubblica ha come data d’inizio non già le inchieste di mani pulite quanto piuttosto il referendum Segni, quando con il 95,5% di si furono abolite le preferenze multiple, sancendo così la sconfitta di Craxi e prefigurando una riforma elettorale di tipo uninominale che però non ha mai messo in discussione la preferenza a livello comunale.

La legge elettorale del 1946 per le legislative prevedeva la possibilità di esprimere fino a quattro voti di preferenza, scrivendo i cognomi dei candidati prescelti oppure i loro numeri di lista. Le molteplici combinazioni dell’ordine della quaterna, spesso trasformata in cinquina, con l’ultima preferenza annullata, rendeva possibile un controllo del voto in quanto la possibilità di esprimere una quaterna di preferenze poteva dar luogo a ventiquattro combinazioni. Al comune di Milano, fino alla riforma presidenzialista, le preferenze esprimibili erano cinque con 120 combinazioni possibili (non considerando le varie variabili: scrivi nome e cognome, scrivi cognome e nome, scrivi numero e cognome, scrivi …).

Al fondo del ragionamento referendario c’era un’idea di Berlinguer che così definiva i partiti non comunisti: “Sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. Con Segni oltre ai partiti di opposizione c’era il meglio della borghesia e dell’intellighenzia: Rita Levi Montalcini, Domenico Fisichella, Carlo Bo, Umberto Agnelli, Luca Cordero di Montezemolo, Giuseppe Tamburrano, Pietro Scoppola, Antonino Zichichi, per citarne alcuni.

Il sobrio titolo di Repubblica, alla proclamazione dei risultati l’11 giugno 1991 fu: “VINCE L’ITALIA PULITA”. A 25 anni di distanza possiamo dire che forse Berlinguer/Segni avevano ragione sul degrado dei partiti ma che i loro eredi non hanno trovato alcuna valida alternativa alla preferenza e che anzi per gli attuali duri e puri (taluni gli stessi di allora) la preferenza è diventata una forma di garanzia rispetto alle liste di nominati.

Lontani i tempi in cui Piero Fassino e Walter Veltroni la condannavano come “un fattore di competizione perversa e malsana tra candidati della stessa formazione, di lacerazione e indebolimento di un partito nel confronto con gli autentici avversari” e Fabio Mussi e Pietro Folena la combattevano come “un formidabile incentivo all’incremento delle spese elettorali, al proliferare delle pratiche clientelari, del malaffare e della corruzione, del voto di scambio e degli inquinamenti malavitosi”, come “la garanzia del predominio delle organizzazioni criminali sulla società e sulle istituzioni”.

Con esilaranti alleanze oggi la preferenza gode di maggiore stima: “Le preferenze sono una nostra battaglia storica”, ha chiarito il leader Beppe Grillo, “erano uno dei tre punti del primo V-Day, prima ancora che nascesse il movimento”, mentre Angelino Alfano ha sostenuto “I cittadini devono scegliere i loro rappresentanti, chi vota deve conoscere il citofono di casa del suo eletto”.

Anche sul multiplo hanno tutti cambiato idea, inserendo la preferenza di genere che avrà certo un effetto pareggiatore teorico degli eletti ma che è anche un possibile modo di controllare il voto come un tempo. Il passaggio da una sola preferenza a preferenze plurime di per sé costituisce una sorta di “visibilità” del voto infatti se il candidato A (maschio o femmina che sia) impone ai suoi elettori di far seguire al suo nome alternativamente i candidati B, C, D, E (maschi o femmine che siano), distribuendo le “doppiette” per singoli seggi/zone, avrà una prova per accertare se il suo “consiglio” è stato seguito.

Vi evito il pippone scolastico sulla differenza tra voto di appartenenza, voto d’opinione, voto di scambio con la variante voto clientelare ma non vi evito i numeri sul rapporto voto preferenze che era alle penultime regionali questo: Lombardia 23%, Piemonte 35%, Umbria con Lazio e Marche 50%, Puglia 75%, Calabria 84%, Basilicata 86%, Campania 90,6%.

L’indice di preferenza dei comuni (l’indice di preferenza è l’indice che mette in rapporto i voti di preferenza espressi e quelli esprimibili, ovvero i voti di lista) presenta anch’esso un divario nord sud notevole ma meno di quello si potrebbe supporre se infatti (dati 2008) Brindisi raggiungeva il 92% e Trapani il 94%, Agrigento il 97,8%, Belluno era al 66%, Asti al 73%, Como e La spezia al 60%. Uno studio del 2012 attribuiva questo indice di preferenza ai partiti: Pd nord Italia 51% sud 89%; PDL nord 60% sud 92%, Cinquestelle nord 10% sud 58%.

La presa d’atto abdicante di Sala di prendere le preferenze multiple come metro di giudizio dei politici milanesi ha origine dai numeri: se il PD milanese con 145.000 voti esprime 52.832 preferenze, non è da meno la Sinistra per Pisapia che su 19.260 voti esprime ben 13.000 preferenze, meno dei civici che su 38.644 voti hanno espresso “solo” 11.650 preferenze.

Nel centro destra Forza Italia ha all’incirca le stesse performance del Pd, su 101.000 voti di sono state espresse 35.000 preferenze; più irrigimentata la Lega 16.379 preferenze su 59.360 ma c’era Salvini. Iper irregimentatati i civici per Parisi 8.502 preferenze per 15.200 voti o i Popolari che con 400 voti in più aggiungono 700 preferenze. La lista di Rizzo su 17.650 voti esprime 7.468 preferenze. I cinquestelle con 52.000 voti hanno espresso 4.438 preferenze, meno di quelle di Tatarella in FI o di Maran nel Pd; che siano l’ultimo partito d’opinione della storia cittadina?

Poi ci sono tutti i piccoli, a partire dai radicali (9.400 voti per 1.400 preferenze) che hanno un indice di preferenza decrescente. I dati andrebbero meglio precisati verificando chi ha espresso doppia preferenza e chi no, ma credo siano sufficienti a dare l’idea. La gerarchizzazione della politica in termini di preferenze è evidente anche nelle zone e del resto anche nella composizione delle microgiunte municipali si seguono gli stessi criteri saliani. In zona 4 ad esempio il Pd su 18.000 voti ha 6.200 preferenze; in zona 3 su 17.000 voti 5.100 preferenze.

Molti candidati zonali hanno eccellenti performance; ad esempio per il Pd in zona 3 dove un elettore su 20 ha votato Luca Costamagna, percentuale analoga a quella di Majorino che però poteva contare su ben diversa anzianità di servizio e visibilità. Guardando i siti, i blog dei candidati zonali non è poi difficile capire che il gioco delle preferenze ha funzionato con il meccanismo delle cordate (con una simpatica ingenuità in alcuni trovate più foto di Maran che dell’ayatollah Komeini sui siti degli sciiti iraniani), con il genere come moltiplicatore.

Certo i municipi sono stati anche l’esempio di come molte liste non dovevano essere ammesse; che senso ha infatti avere una sterminata serie di candidati che non hanno preso neanche un voto? O liste che hanno preso più firme per la presentazione che voti?  Basterebbe un più attento controllo sul rispetto delle norme in vigore che metà delle liste non avrebbe potuto presentarsi. Del resto fuori dalla retorica ufficiale il funzionamento delle zone/municipi e la loro stessa esistenza è oggetto di commenti irriferibili.

Ovviamente la preferenza come criterio di selezione e di gerarchizzazione ha anche altri effetti:
1) funziona anche in negativo. Tradotto: il trombato ha buone possibilità di vedere la propria carriera politica interrotta definitivamente e comunque deve necessariamente abituarsi al “com’è duro calle lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale “.

2) privilegia le carriere “lunghe”; troviamo cioè neo consiglieri comunali con alle spalle tre mandati in consiglio di zona e consiglieri di zona che arrivano dal consiglio comunale ma anche consiglieri che ci provarono la prima volta nel ’97. La preferenza aumenta il professionismo della politica.

3) favorisce non chi ha la migliore performance assoluta ma quella relativa e questo significa saper suddividere i voti, chi insomma ha maggiore capacità di alleanza. Tradotto anche se è Majorino a prendere un terzo di preferenze in più di Maran, vince quest’ultimo che ha fatto più squadra e ha più eletti.

4) la preferenza essendo anche voto d’opinione richiede di essere alimentata e consolidata, come il voto clientelare, quindi necessita di protagonismo, di strutture, di strumenti, di danari quasi tutti a scapito del partito di appartenenza. La preferenza è senza soluzione di continuità, finite le comunali occorre rattamente prepararsi alle preferenze regionali pena l’ingresso di concorrenti.

5) da vita a un notabilato e a una nomenclatura che gestisce voti e opinioni non necessariamente con fini poco commendevoli ma certamente in modi e forme diverse da quelle della democrazia dei partiti. Così come crea un mercato del voto, dove per mercato intendo anche quello settimanale con bancarelle per la vendita per contanti

In conclusione dobbiamo dare atto a Sala di aver fatto la sua prima operazione politica importante: aver ridato un metro di giudizio uniforme alla politica milanese. Che poi ci fosse proprio bisogno di tornare ai criteri del PSDI di Tanassi* è un’altra storia.

Walter Marossi

 

 

* Mario Tanassi (Ururi, 17 marzo 1916 – Roma, 5 maggio 2007) uomo politico italiano, più volte Ministro della Repubblica. Nel 1979 fu condannato dalla Corte Costituzionale per corruzione.

 

 



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