6 luglio 2016

LICEO CLASSICO SOTTO OSSERVAZIONE

Dove sono i suoi amici e dove i nemici


Nell’ArcipelagoMilano del 18 maggio Rita Bramante dava conto del convegno sul futuro del Liceo classico tenuto a maggio al Politecnico. Il “piatto forte” della prima giornata sono stati gli interventi di Luigi Berlinguer, di Maurizio Bettini e di Luca Serianni. L’ex ministro ha parlato per mezz’ora, con crescente passionalità: il Liceo classico è una specificità italiana, dobbiamo esserne orgogliosi nel difenderlo, anzi nel rilanciarlo. Ma va riconosciuto che quanto ha provocato la crisi viene dal suo interno.

10cantilena25FBIl Liceo, infatti, tradendo la sua originaria vocazione universalistica, s’è ridotto a una scuola dove si pratica il “grammaticalismo”, anzi il “filologismo”, anzi l'”iperfilologismo”, addirittura la “gimnosofistica”. Sono tutti termini usati da Berlinguer (chi crede che fossero i gimnosofisti?), e la denuncia degli ‘ismi’ non finisce qui: sono stigmatizzati anche il disciplinarismo, il multidisciplinarismo, l’iperdisciplinarismo, l’enciclopedismo, il neoidealismo, il logocentrismo, l’abolizione dell’arte, il disprezzo del lavoro manuale e il classismo.

Non so se questa visione del Liceo nasca da tristi ricordi dell’adolescenza: ma in questo quadro (un tantino eccessivo?) forse non si riconosceranno molti liceali. Qual è comunque la sua proposta? Vaga, astratta, generica, com’era destinata a essere una perorazione così farcita di -ismi. Ecco la “centralità dell’apprendimento, non dell’insegnamento“, ecco il “superamento dell’orario scolastico” e la “scuola aperta“, ecco il “forte spessore teorico che però non rifiuta la mano, che è parte della conoscenza“, insomma (Letizia Moratti non avrebbe detto diversamente) “un Liceo che non bandisca il fare“. Berlinguer non ha detto ciò che gli attribuisce la Bramante, “non bisogna annoiare né far soffrire“, ma una proposta concreta e comprensibile l’ha fatta: la seconda prova scritta agli esami di maturità “va cancellata. Energicamente!“. E qui – scrive la Bramante – “la sua affermazione è sottolineata dall’applauso della platea“.

Veramente in coda all’applauso, è partito un sonoro “buuu” (controllare su YouTube) che ha visibilmente innervosito l’oratore, il quale a questo punto perdeva l’equilibrio che aveva cercato di mantenere, e si lanciava nella direzione tardosessantottesca che s’è detta, contro scuola di classe, privilegio etc. Berlinguer annetteva alla sua posizione (coerentissima: la traduzione incarna gran parte dei mali da lui vituperati) anche quella di Bettini, che però non dirà questo (ma quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur), e svolgerà un discorso assai più serio e persuasivo. Prima sarà però il caso di accennare all’intervento di Serianni (pubblicato sul Sole 24 ore del 22.5).

Dopo un’interessante preambolo, Serianni afferma che è necessario “rivedere la corrente gerarchia scolastica, che pone al vertice la prova di versione“, comportando, tra le altre negative conseguenze, quel “soverchiante apparato grammaticalistico” (in ciò evidentemente Berlinguer e Serianni si intendono benissimo). Ma Serianni è più fattivo, e lancia alcune proposte: alleggerire quest’apparato, magari togliendo di mezzo la quarta e quinta declinazione latina (cosicché espressioni banali come brevi manu e carpe diem acquistino finalmente il fascino dell’ignoto); e “confrontare traduzioni d’arte di grandi testi della classicità“: perché ai giovani, più che lo sforzo di tradurre personalmente, venga chiesto di giudicare lo sforzo degli altri.

Può darsi che queste soluzioni trovino applicazione concreta nelle direttive ministeriali (non mi stupisco più di nulla), ma Serianni non s’è limitato a dare suggerimenti teorici. Ha proposto un “esperimento”, esemplificativo di come si possano superare gli inconvenienti del vecchio liceo: ha commentato qualche verso di Virgilio nello stesso identico modo con cui lo commenterebbe qualunque professore del liceo di oggi e (posso giurarlo) del liceo di ieri. Se queste sono le novità, beh, Serianni ci ha davvero stupito.

All’opposto di chi dice banalità credendo di dire cose nuove, Bettini ha detto cose nuove e sostanziose presentandole con semplicità. Il Liceo classico è la chiave d’accesso a un patrimonio che, senza una memoria culturale che lo interpreti e lo valorizzi, si deteriora e inevitabilmente sparisce, come un monumento non tutelato fisicamente. Il nostro paese deve riconoscere che anche i suoi atouts nel mondo contemporaneo, ciò per cui siamo apprezzati e identificati (la moda, il design, il gusto etc.) non nascono dal nulla, ma da una cultura, figlia di una tradizione.

Una tradizione però non è un dato immanente e permanente: esiste se la si sceglie e la si fa vivere, e, fra le istituzioni cui spetta questo compito, il Liceo classico è la principale. Raramente ho ascoltato argomenti così chiari e decisivi, nella tanta retorica di cui s’è sempre fatto spreco nel difendere l’importanza degli studi classici. Anche Bettini denuncia alcune storture, ma se in qualcosa le sue posizioni coincidono con quelle degli altri due oratori, il suo discorso è molto più concreto, e in due delle sue denunce chi scrive si riconosce in pieno.

La centralità, o si potrebbe dire anche il monopolio della letteratura, che di per sé è solo uno degli aspetti delle culture antiche. E l’illusione che uno studente possa conoscere tutto, imparare tutto e ricordare tutto, dai verbi irregolari alle Bucoliche di Nemesiano. Ma non va accolto nemmeno l’andazzo a sostituire i ponderosi libroni di sintassi e di storia letteraria con manualetti poveri di contenuto.

Ciò a cui si deve mirare è una riarticolazione degli studi intorno alle culture antiche, così che gli studenti possano scoprire quanto, rispetto ad esse, ci possiamo riconoscere simultaneamente interni ed estranei, lontani e vicini. Una proposta concreta infine Bettini avanza, in ordine alla famosa prova di versione dalle lingue classiche: non l’abrogazione berlingueriana, ma una traduzione su testi più brevi, in un tempo più lungo, di un passo di cui sia noto il contesto, e di cui allo studente venga richiesto di dimostrare, rispondendo ad alcune domande, quanto ne abbia davvero compreso. Proposta ragionevole, sembra, e che nelle condizioni ideali potrebbe funzionare bene, mettendo tra l’altro al riparo delle traduzioni scaricate da Internet.

Che cosa c’è che non va? Una cosa molto semplice: non siamo nelle condizioni ideali. Già a giudicare da come la proposta è stata interpretata dall’ex-ministro, e da quanto si verifica da anni nella scuola italiana, è facile prevedere in che chiave verrà declinata. Come s’è visto nel recente concorso a cattedra, la tendenza del MIUR è a sbarazzarsi del tutto della prova di traduzione, e a richiedere ai candidati di “interpretare” e “commentare” testi che non si deve più dimostrare di saper tradurre.

Costruendo così un altro piano di quel colossale edificio di ipocrisia sociale che troppo spesso è stata la scuola. Che infine, diciamolo, da un pezzo ha cessato di essere la scuola dove si insegnava il latino perché si doveva imparare a scriverlo, e dove sono tramontate da decenni le vessazioni grammaticali e la coniunctivitis professoria di cui parlava Giorgio Pasquali. La scuola attuale, e non solo il Liceo classico, soffre di un male, il facilismo, di cui la società italiana nel suo complesso è vittima e causa al tempo stesso. Non è il caso di fornire involontariamente nuovi impulsi a questo deleterio trend verso la scuola senza fatica.

Ma non per questo ci dovremo arroccare in una difesa a oltranza di tutto ciò che esiste: e se il giurista Luigi Capogrossi ci ha ricordato che solo il 10 % dei suoi studenti, tutti provenienti dal Liceo classico di una volta, erano in grado di comprendere il facile latino di Gaio, qualcosa bisognerà pur fare. Ma non studiare meno lingua, bensì studiarla di più, più a lungo e più gradualmente, non sbattendo davanti a ragazzi appena alfabetizzati difficili brani di poesia antica, ormai tutti tradotti in nota, ma facendoli soffermare prima, e per molto tempo, su testi facili e comprensibili.

Carla Guetti, dirigente del MIUR, ha deplorato infine un severo giudizio di Umberto Galimberti, da lei definito “un grande intellettuale”. Galimberti è un buon esempio dell’uso che si può fare della civiltà greca, da lui tanto apprezzata. Il grande intellettuale, in una lezione che si può ascoltare su YouTube ha spiegato tra le altre cose che “il popolo greco è il popolo più intelligente che sia mai apparso sulla terra” (!), che il greco è una lingua colta (!!) e che in greco si usano le gutturali per indicare ciò su cui l’uomo non ha potere e le liquide e le labiali per indicare ciò di cui l’uomo dispone (!!!): cosicché il fuoco del focolare su cui si prepara il cibo si chiama pyr, mentre quello del fulmine, su cui l’uomo non ha alcun potere, si chiama ugnos (termine che in greco non esiste, ma chi bada a certe sciocchezze?). Si rassicuri Carla Guetti: se sono questi gli avversari del Liceo classico, non c’è di che preoccuparsi.

Mario Cantilena



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