22 giugno 2016

musica – MUSICA A BANNA


Immaginate di imboccare l’autostrada per Genova e poi per Alessandria e Torino e di assopirvi lungo il percorso perché c’è chi guida per voi; vi destate quando l’automobile, uscita al casello di Villanova d’Asti e fatta pochissima altra strada, imbocca un rettifilo sterrato fra due lunghi filari di alberi, alti e severi, e vi trovate all’ingresso di una cascina / castello / tenuta / villa, grandiosa e discretissima, con un’aia (ma nessuna parola qui è appropriata) più grande di una piazza d’armi sulla quale affacciano castello, cappelle, rustici, edifici medievali e neoclassici tutti di grande sobrietà e compostezza, ma soprattutto tanto verde e così bello che sembra curato da Capability Brown in persona. Aperti gli occhi vi domanderete come abbiate potuto attraversare la Manica senza esservene accorti. Siete invece a Banna, nel Piemonte profondo.

musica23FBÉ in questo paradiso terrestre che una grande famiglia genovese svolge da una dozzina di anni una attività di mecenatismo di livello molto alto organizzando “seminari, laboratori e conferenze sull’arte e la musica contemporanee, per promuovere l’approfondimento delle pratiche artistiche e dei temi più rilevanti del dibattito filosofico ad esse correlato”. É la “Fondazione Spinola-Banna per l’arte”, che l’altra sera ha aperto le porte a 150 invitati provenienti da tutta Italia per ascoltare il frutto dell’ultimo anno di lavoro per il suo decimo “Progetto Musica”.

Diretto da Ricciarda Belgioioso e guidato in qualità di docente da Fabio Vacchi (che aveva già guidato il primo progetto, nel 2007), questo “Progetto Musica 2016” si è sviluppato in collaborazione con le attività di arti drammatiche e visive del “Progetto Teatro” – a sua volta affidato a Daniele Abbado – che ha magistralmente e da par suo curato la regia delle opere rappresentate insieme a tre giovani scenografi (Marco Belfiore, Cleo Fariselli e Diego Scroppo). Ed ecco le meraviglie di questa grande festa d’arte e di musica offerta sabato scorso dalla Fondazione.

Il programma, illustrato e commentato in un elegante fascicolo da Giorgio Pestelli, era articolato in tre parti, tutte sostenute musicalmente da nove strumentisti di Sentieri Selvaggi (violino, viola, violoncello, flauto, clarinetto, fagotto, arpa, pianoforte e percussioni) diretti da Carlo Boccadoro, e consisteva in: una suite di pezzi da camera di Fabio Vacchi, noti con il nome di “Luoghi Immaginari”, e due brevi opere liriche, in unici atti, rispettivamente di Orazio Sciortino (MeetHer) e di Francesco Fournier (L’assassino).

Della musica di Vacchi ci siamo già occupati in questa rubrica a proposito del bel melologo “Sull’acqua (sotto di noi il diluvio)”, ascoltato nell’ottobre scorso all’Auditorium, di cui abbiamo apprezzato la grandezza della visione “biblica” del testo di Michele Serra e il vasto respiro della avvolgente e palpitante partitura che lo accompagnava. In questo caso la musica tocca corde totalmente diverse. I cinque pezzi (quintetto, ottetto, trio, settimino e quartetto) sono delicatissime elegie, un viaggio introspettivo nel profondo dell’animo umano, ma potrebbero anche alludere – laddove la musica si fa liquida per allontanarsi dal reale – a una immersione in un mare popolato da esseri misteriosi, in paesaggi stranianti, intrisi di nostalgia e di malinconia. Alcuni pezzi sono dedicati a Nono, a Maderna, a Messinis, ma potrebbero esser dedicati anche, per assonanza e per intenzioni, a Italo Calvino. Un grande struggimento, colmo di affetto e di empatia, una vera delizia.

Di Sciortino ricordo con quanto entusiasmo accolsi la sua prima opera, “La paura”, ascoltata nel dicembre scorso a Novara, apparsa come una rivelazione per la bella scrittura che “sposava appieno la modernità senza nostalgie neoclassiche o neoromantiche”. Questa sua seconda opera conferma pienamente il giudizio più che positivo di allora e ci mostra un compositore determinato a non farsi attirare nello sperimentalismo di linguaggi esoterici, tanto cari a certi postdodecafonici, e a condurre invece una ricerca personale e autentica di un linguaggio sì adatto a rappresentare la complessità e le contraddizioni del presente ma anche a consegnare all’ascoltatore una chiave di lettura chiara, comprensibile, accattivante e perfettamente godibile.

Infine il ventenne romano Fournier, in qualche modo figlio d’arte ma con personalità del tutto autonoma, mette in musica – adattandone e sintetizzandone il testo – un assai noto e paradossale racconto di Michele Serra, al vertice della sua inesauribile ironia. Una scrittura rapsodica, molto contaminata da generi paralleli a quelli della “musica colta” ma da questa assai ben assimilati, che consente una perfetta dizione da parte dei due protagonisti – la soprano Valentina Coladonato e il tenore Danilo Formaggia, ottimi e generosi interpreti di entrambe le opere – e un ascolto lucido e partecipato da parte del pubblico.

Il quale pubblico, mediamente molto competente essendo composto per lo più da protagonisti della musica – critici, storici, musicologi, organizzatori e gestori di istituzioni musicali – pare abbia molto gradito non solo la squisita ospitalità della Fondazione, ovviamente, ma soprattutto la musica, quella di Fabio Vacchi prima e quella dei suoi discepoli poi.

Fin qui la cronaca. Aggiungo però una considerazione.
La chiamata a raccolta, intorno a opere prime, di tanti musicologi e musicofili determina una sorta di spaccatura fra due opposte tifoserie (giusto per usare la solita e abusata metafora calcistica), ben più aggressive di quelle che si limitano a dividere un normale pubblico fra chi ha gradito e chi no. In questo caso era palpabile la frattura netta fra due tendenze opposte della musica contemporanea: quella che discende dai lombi della scuola tedesca che vede come protagonisti italiani gli epigoni di Luigi Nono (e fra gli esponenti contemporanei Salvatore Sciarrino), e quella che si propone di medicare la drammatica ferita della incomunicabilità che da tempo caratterizza il rapporto fra gli autori della musica colta e il loro pubblico.

Il problema è sempre quello del linguaggio, che nella seconda metà del novecento ha perso la capacità di entrare in sintonia con gli ascoltatori e di comunicar loro vere emozioni, spendendosi con accanimento in ricerche “tecniche” dallo scarso contenuto musicale. Solo pochi appassionati, che ora sembrano appartenere a una setta di iniziati, riescono ad apprezzare la musica figlia di quell’approccio e a sentirla come naturale evoluzione del passato; sono gli stessi che oggi, per esempio, stentano ad accettare qualsiasi compromissione con la tonalità. Ma sono veramente compromessi? O non piuttosto la ricerca della continuità di un percorso che riconosce le proprie radici e che da quelle si proietta nella contemporaneità?

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema


9 aprile 2024

VIDEOCLIP: LA MUSICA COME PRODOTTO AUDIOVISIVO

Tommaso Lupi Papi Salonia






20 febbraio 2024

SANREMO 2024: IL FESTIVAL CHE PUNTA SUI GIOVANI

Tommaso Lupi Papi Salonia



20 febbraio 2024

FINALMENTE

Paolo Viola



6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Paolo Viola



23 gennaio 2024

MITSUKO UCHIDA E BEETHOVEN

Paolo Viola


Ultimi commenti