8 giugno 2016

DEMOCRAZIA E PARTECIPAZIONE. PENSIERO E LEADER DI CUI AVREMMO BISOGNO

Uscire dal diciannovesimo secolo e entrare nel ventunesimo


Mi sarebbe piaciuto che i candidati sindaci delle città metropolitane italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna) nel presentare i loro programmi, si fossero soffermati su un avvenimento e congiuntura eccezionale nel panorama politico italiano e cioè che da pochi mesi la metodologia del Dibattito Pubblico (DP) è una realtà anche nel nostro Paese. Infatti da un lato è stato approvato dal governo il nuovo Codice degli Appalti che prevede l’obbligatorietà di far precedere la stesura di progetti esecutivi di grandi Opere da una consultazione dei cittadini e istituzioni dei territori interessati, con la metodologia del DP e dall’altro a Livorno si sta chiudendo la prima vera ufficiale sperimentazione di questo approccio, grazie a una legge della Regione Toscana del 2013.

04sclavi21FBA Livorno da aprile l’Autorità Portuale assieme al Comune e alla Autorità per la partecipazione della Regione Toscana stanno offrendo ai cittadini l’opportunità di discutere la trasformazione e ampliamento del porto, con la creazione della nuova Darsena Europa e un nuovo Terminal croceristico che segnerà l’interfaccia tra il porto e la città (vedi: “www.dibattitoinporto.it”) .

L’aspetto sul quale i candidati sindaci avrebbero dovuto riflettere è che il Dibattito Pubblico, pur essendo uno strumento ormai vecchiotto (esiste in Francia dal 1995) è una espressione molto limpida di una svolta, un passaggio dalla democrazia classica, quella che ha radici nel pensiero e nelle istituzioni del XIX secolo, alla democrazia deliberativa che muove i primi passi negli anni ’80 del XX secolo. I due principali concetti coinvolti in questo passaggio sono quello di ”interesse generale” e di “rappresentanza”. Vediamone i termini e perché sono fondamentali, per esempio, nel disegnare il funzionamento dei “nuovi municipi” di cui le Città metropolitane dovrebbero essere composte e più in generale nel ripensare le modalità operative del welfare o la gestione della quotidianità nelle scuole o nei complessi di case popolari.

Alla base del Debat Public c’è infatti la considerazione che non è più sufficiente il voto degli elettori e neppure la discussione nei parlamenti per poter presentare una certa delibera come espressione dell’interesse generale. L’interesse generale (o “bene comune”) è invece il risultato di un processo complesso che coinvolge nella discussione la cittadinanza attiva presente nei territori interessati al tipo di intervento in oggetto. Questo processo deve essere gestito da un ente terzo, imparziale (come l’Authority della Regione Toscana) il quale designa una facilitatrice / facilitatore (a Livorno è una francese, Sophie Guillain), la quale ha la responsabilità di garantire “il dibattito” fra tutte le parti in causa, fornendo sia le informazioni necessarie (con visite sui luoghi, incontri con esperti, ecc) che le occasioni di incontro e confronto delle idee.

Il potere pubblico in questa fase è “parte in causa” alla pari con tutte le altre, sia i poteri forti che quelli minuscoli, e solo alla fine, con le indicazioni risultanti da tale percorso in mano, ritorna al proprio seggio con la responsabilità di prendere le decisioni ultime e giustificare le eventuali modifiche.

I due nuovi principi per il buon funzionamento delle istituzioni e della governance in una società globale e complessa, sono dunque: il diritto delle minoranze ad essere ascoltate in un rapporto dialogico e la progettualità congiunta eletti, esperti e abitanti. Entrambi riassumibili nello slogan “niente per noi senza di noi”, inventato originariamente dalle associazioni del terzo settore che si occupavano dei disabili e poi riconosciuto valido per tutti. In altre parole il sapere “locale”, il sapere connesso all’abitare nel contesto implicato, è ingrediente necessario per elaborare progettualità virtuose. Basta con un modo di pensare per cui “il locale” coincide con interessi particolaristici e il nazionale con interessi generali. Basta con le critiche del “dirigismo” che auspicano un maggior ruolo dei parlamenti intesi come ipso facto i “rappresentanti” esclusivi della voce dei territori e basta con una democrazia delle élite del potere, in cui gli eletti e i loro circuiti amicali, di cui i potentati fanno di necessità parte, sono gli accaparratori delle diagnosi e dei processi decisionali.

La nuova figura del facilitatore al di sopra delle parti è assolutamente centrale. È il corrispondente, nello stato post-moderno, del burocrate weberiano e come per quest’ultimo la sua neutralità non è basata solo sulle modalità di reclutamento, ma anche e specialmente su una serie di competenze, di protocolli, di strumentazioni in grado di assicurare il suo ruolo di garante della inclusività e della trasparenza dell’intero processo. Tali abilità si possono sintetizzare nella capacità e possibilità di creare contesti di mutuo apprendimento dove tutti i differenti punti di vista siano presenti e dove la moltiplicazione delle opzioni e l’esplorazione congiunta di soluzioni inedite e di mutuo gradimento aprono la via alla co-progettazione creativa.

Uno dei motivi del nostro ritardo nella adozione di queste metodologie (che in giro per il mondo sono ormai numerose e variegate) è che in  Italia si continua a pensare ai “partiti” avendo in mente la tradizione ormai conclusa dei partiti di massa, così efficaci nel farsi portavoce a livello governativo della volontà dei cittadini. E quindi c’è una forte tendenza nel ceto politico a snobbare queste novità, ad adottarle più che altro per dare un contentino alla Comunità Europea e poi accontentarsi di processi partecipativi “per finta”, “tanto chi conta veramente siamo noi”.

Questa è l’impressione che ho ricavato nel sentire i discorsi dei candidati sindaci. Ma se stiamo con i piedi nel ventunesimo secolo e la testa nel diciannovesimo, non saremo in grado neppure di chiederci come mai in così tante città europee e del mondo oggi si stanno praticando con sempre maggiore convinzione, approcci di democrazia deliberativa. E cosa ancora più grave non sapremo neppure fare tesoro del moltiplicarsi di esperienze di questo tipo anche sul nostro territorio nazionale, che esistono ma hanno a che fare con un ceto politico che “tanto chi conta veramente siamo solo noi”.

 

Marianella Sclavi

 



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