31 maggio 2016
LA CITTÀ VISTA DALLA CAMPAGNA
Una nuova lettura delle aree agricole di prossimità urbana
31 maggio 2016
Una nuova lettura delle aree agricole di prossimità urbana
Le riflessioni in corso, sia a livello istituzionale sia culturale, sui destini di Milano Metropolitana pongono i beni primari – la natura, l’agricoltura e il vasto patrimonio di opere architettoniche e infrastrutturali che compongono il paesaggio aperto – come elementi fondativi della sua futura trasformazione. In questo senso osservare – e pensare – la città dal punto di vista della campagna è una pratica che ritengo fondamentale per superare quella cultura urbana che in modo cinico e arrogante ha progressivamente trasformato brani di paesaggio agrario in una uniforme e anonima periferia, proprio per non aver considerato il loro tessuto morfologico, produttivo e sociale come risorsa per lo sviluppo della città.
Se è vero che oggi “campagna e città ci appaiono per come sono sempre state: l’una dentro l’altra e viceversa” (Franco Farinelli in CorriereExpo del 25.05.2016) ribaltare il punto di osservazione significa addentrarsi in quel sistema di spazi aperti, una volta percepiti come lontani e sconosciuti, per riconoscerne la vocazione di luoghi privilegiati dello scambio e delle relazioni tra le diverse comunità metropolitane.
È ormai ovvio il ruolo centrale dello spazio agrario – o di quello che ne è rimasto – nelle dinamiche della vita sociale urbana: migliaia di cittadini, nonostante siano numerosi gli ostacoli, le discontinuità e gli usi impropri, con ostinazione percorrono le strade e i sentieri – a piedi, a cavallo, in bicicletta-, coltivano appezzamenti di terra liberi o abbandonati – in forma individuale ma anche comunitaria -, consumano e scambiano i prodotti locali, contemplano il paesaggio ed esplorano le sue diverse forme e gradi di natura.
Spesso interclusi tra tessuti edilizi e grandi reti infrastrutturali gli ambiti agricoli e naturali, più o meno pregiati e/o degradati, si configurano come “common”, termine anglosassone oggi utilizzato per indicare luoghi condivisi e segnati da un diritto comune; la definizione è legittimata dalla consapevolezza di agricoltori e proprietari terrieri che l’invasione dei loro territori da parte dei cittadini è oggi un’opportunità, anziché un ostacolo, per lo sviluppo del proprio business.
Seguendone forme e movimenti – e i desideri che li generano – si potrebbe disegnare una nuova mappa della geografia urbana, o meglio metropolitana, dove questi spazi comuni – rompendo gli antichi confini amministrativi – assumono un’importanza analoga, se non superiore, a quella di parchi e giardini pubblici rispetto alla città storica.
Superata la fase della conservazione è oggi la consapevolezza comune del loro valore primario che spinge verso l’innesco di quelle strategie di recupero e valorizzazione diffusa dove, in primo luogo, si chiedono interventi semplici e immediati di sistemazione di uno spazio già “dato”; ad esempio normando il suo utilizzo spontaneo tramite forme di asservimento all’uso pubblico per sancirne il valore collettivo, rimuovendo ostacoli e interruzioni per facilitarne la permeabilità lungo le direzioni di nuovi flussi e movimenti, mettendo a disposizione aree e/o edifici in disuso per favorirne l’uso temporaneo, ecc.
Tale consapevolezza è così forte e crescente che costringerà la politica a tramutare la natura e il significato di alcuni suoi progetti preferendo, alle opere eccessivamente retoriche, interventi più elementari ma diffusi per il beneficio di tutti e di sicura fattibilità economica, sociale e ambientale.
Le Vie d’Acqua non saranno più dei grandi canali inutili, costosi e artificialmente ricostruiti per simulare un passato ormai inesistente, ma piuttosto un progetto di recupero di quel vasto e magnifico reticolo idrico superficiale ancora esistente e funzionale – sebbene nascosto nelle aree d’intersezione con il tessuto urbano – per irrigare orti e giardini, ricostruire la biodiversità di boschi, fontanili e zone umide, migliorare il drenaggio di acque superficiali riducendo allagamenti ed esondazioni, disegnare nuove tipologie di viali e spazi pubblici e, naturalmente, restituire – evocandola – la bellezza del paesaggio lombardo.
I Raggi Verdi non potranno più essere una parziale risoluzione della mobilità lenta, in quanto limitata al passeggio lungo percorsi a zig zag che collegano parchi e giardini ma, per evitare sprechi e inutili duplicazioni di opere pubbliche, dovranno essere strategicamente integrati a una vera e propria rete ciclabile con percorsi e traiettorie che devono entrare in competizione con altre forme di traffico, magari sfruttando i tracciati di quelle antiche strade poderali e corsi d’acqua che, come scorciatoie, attraversano ancora i tessuti urbani collegandoli a quelli rurali.
Gli interventi di Housing sociale, che ultimamente si stanno spingendo a occupare borghi e ambiti rurali, non potranno più uniformare l’immagine di questi ultimi a quella delle periferie urbane consumando suolo agricolo intorno al loro nucleo originario, ma dovranno valorizzare i “common” di Viboldone, Chiaravalle e Figino – per fare un esempio tra le poche località ancora isolate nel tessuto urbanizzato – rigenerando i loro patrimoni edilizi esistenti e traendo proprio dalla loro condizione di isolamento quel valore unico e privilegiato di rinnovato rapporto con la campagna.
Carlo Masera