25 maggio 2016

LA RAI E MILANO: I “TERRITORI” CHE FINE FANNO?

Le città in campagna elettorale, Stato e Rai rinnovano la missione di servizio pubblico


È formalmente scaduta il 6 maggio (ed è quindi di imminente rinnovo) la concessione da parte dello Stato della qualifica di “servizio pubblico” in ambito radiotelevisivo a una azienda nazionale in grado di concorrere alla domanda di saper assolvere il “cahier de charges” che più o meno in tutta Europa corrisponde a questa qualificazione e a questa funzione. Con il corredo ora di quasi due miliardi di euro direttamente versati dal contribuente per sostenere tale funzione. Non è apparso alla soglia del negoziato reale nessun altro soggetto oltre alla Rai per tale aggiudicazione.

08rolando19FBE già i tavoli di concertazione con la società civile e professionale italiana promossi dal Ministero dello Sviluppo Economico il 12 aprile a Roma esprimevano l’ufficioso orientamento del rinnovo della concessione alla Rai, tanto che ciascun tavolo risultava presidiato consultivamente da un qualificato dirigente dell’azienda in grado di compatibilizzare i diversi, e a volte anche conflittuali, contenuti della domanda potenziale della società italiana.

Ho avuto l’occasione in quella giornata di coordinare il tavolo dedicato al tema – per alcuni strategico, per altri marginale, per altri ancora soprattutto conflittuale – riguardante i “Territori“. Le sintesi di quei lavori sono di imminente pubblicazione da parte del MISE e capita in questo periodo, in altri format di discussione, di riprendere questo argomento all’interno della problematica rilevante che riguarda appunto il rinnovo.

Propongo qui qualche brano di riflessione, perché una città come Milano sotto elezioni amministrative sa che questo dossier contiene alcune risposte importanti per il suo processo identitario, per il suo sviluppo, per la sua rappresentazione nazionale e internazionale.

Se poi i candidati trattano o non trattano il tema credo che ciò faccia parte di una tendenza generale, questa volta, a schivare in campagna elettorale contenuti concreti, indirizzando la campagna attorno a scelte generiche ed emotive. Ma ritengo doveroso fare un richiamo alle sensibilità dei candidati attorno a un loro posizionamento su un argomento che è, è stato e sarà tema delicato e ineludibile di governo degli interessi della città e del suo ampio territorio circostante.

Dal tempo della maggiore riforma della Rai, quella del 1975, il tema “Territori” è stato un paradigma della natura stessa del “servizio pubblico”. In quegli anni esso, con forte interpretazione delle neonate Regioni (istituzioni allora portatrici di proposta innovativa sia in senso politico-amministrativo che socio-culturale), significò la costituzione della terza rete televisiva. Poi negli anni ottanta significò – sempre con forte mediazione politica – una sagomatura del decentramento produttivo. Poi, addirittura con invasione della politica, significò negli anni novanta (e in seguito) un uso possessivo dello spazio televisivo per dare alla politica (in crisi) incrementi di visibilità laddove si vive, si lavora e si vota.

E oggi, cosa sono i “territori” in rapporto a una per ora imprecisa strategia aziendale e politica nei loro confronti? I “territori del fare radio e televisione” vengono trattati, appunto nel territorio, come oggetto di un conflitto sulle risorse oppure come oggetto di una delusione sulle occasioni sprecate. Il che allontana un sentimento partecipativo dell’Italia diffusa attorno al rinnovo della pur importantissima concessione.

L’atto della concessione di “servizio pubblico” infatti non dovrebbe essere concepibile come atto burocratico o come atto autoritario. Esso dovrebbe appoggiarsi a un comun denominatore della società italiana che riconosce in un centro di costo di due miliardi di euro direttamente finanziato dai cittadini una concreta opportunità declinabile regione per regione, città per città.

Ma non si sente in giro questo vento tiepido e confortante. Si sentono musi lunghi. La questione delle risorse è raccontata più o meno così. Alla fin fine la stampa e l’emittenza locale svolgono – con risorse sempre più limate – ruoli di gestione della autorappresentazione, ovvero della cronaca, in termini sufficienti per una domanda che è già un bel po’ ridimensionata dal web. Se la Rai vuole agire con una funzione più ampia lo faccia, ma ciò significa proporsi un racconto più importante, più rivolto all’esterno, meno invaso dalla politica, soprattutto senza drenare altre risorse dai territori (cittadini, imprese, istituzioni) perché il canone è già stato versato a quello scopo.

La lamentazione riguarda convenzioni, sponsorizzazioni, esazioni per valorizzare luoghi o eventi spazzando via quel po’ di finanza pubblica che forse (ma questo forse va sottolineato due volte, perché la buona tv non basta invocarla, bisogna saperla anche fare e dipende anche da risorse importanti) altri farebbero con più dedizione mantenendo viva una filiera produttiva spesso in difficoltà.

Il caso dei soldi in dote aggiuntiva gestiti dalla Rai per Expo viene alcune volte messo sotto accusa proprio a questo riguardo. Ed è un caso attorno a cui una rendicontazione qualitativa sarebbe importante. Per smentire chi dice che quel prodotto si è visto poco o niente. O chi dice che è stato un prodotto conforme all’ordinaria amministrazione di una azienda pubblica di tv a fronte di un primario evento nazionale. Oppure mostrando con evidenza il rendimento. Il che metterebbe sotto altra luce il tema delle risorse aggiuntive.

Ma sotto accusa sono anche i soldi di sponsorizzazioni istituzionali di eventi futili che hanno poco a che fare con la natura di un servizio pubblico (a parte la solita scusa del “turismo”) e che a loro volta tolgono di mezzo poste finanziarie che potrebbero sostenere progettazioni magari di maggior livello.

La delusione riguarda quei territori – e Milano è capofila di questa partita, ma per certi versi anche altre città a cominciare da Napoli sono in partita – che pongono alla Rai da tempo una sfilza di opportunità di interpretare una società creativa in evoluzione, una rete culturale e scientifica bisognosa di rappresentazione, un quadro di mutamento dell’economia e della cultura, marginalmente raccontato e soprattutto marginalmente messo in condizioni co-produttive con la stessa azienda di Stato.

Poi ci sono moltissime cose che la Rai, a sua volta, potrebbe schierare come ambiti di attuazione di missioni civili, sociali e culturali ancora in condizioni di una certa qualità. E ci sono anche – in attuazione di convenzione con lo Stato, con risorse aggiuntive – compiti assolti per affrontare temi specifici della territorialità, come il bilinguismo o altre complessità declinate diversamente nel territorio. Ma è evidente che se ci fosse una strategia per il territorio dell’Italia del terzo millennio – in cui il tema di Milano va derubricato rispetto a ogni ragionamento sul decentramento egualitario per investire una missione produttiva nuova, di tipo europeo e rivolta al mondo – questo clima di ragionieristico dissenso verrebbe molto rasserenato.

Il “patto” sarebbe, insomma, più che mai necessario. Ma è evidente che rispetto alla riforma degli anni settanta o rispetto ad altri momenti di valutazione della tenuta istituzionale del “servizio pubblico” ora le regioni appaiono molto più deboli (reputazione, qualità della politica, dirigenza) e talvolta anche culturalmente più sprovvedute di una volta così come i partiti politici appaiono troppo preoccupati per la loro stessa esistenza per avere un ruolo in queste connessioni che richiedono a monte una connessione nazionale che è saltata.

Chi lo farebbe dunque questo patto? In parte, dico solo in parte, le città hanno una forza che proviene loro dalla crescita dei ruoli economici e da una maggiore fiducia dei cittadini per tentare una riflessione più stringente. Anche con geometrie variabili.

Il che pone il problema urgente di quella Milano raccontata dal presidente Mattarella come “motore dell’Italia” che essendo città capitale delle comunicazioni crossmediali del nostro tempo ha in mano l’opportunità di aprire un cantiere importante per sé e importante per altre città che talvolta “vogliono ma non possono“. Talvolta le campagne elettorali fanno fare sintesi a questo genere di esigenze. E questo fa avanzare in concreto, non demagogicamente, il profilo di autonomia delle città e dei territori. Altre volte quello che si chiama “centralismo” approfitta delle apnee delle autonomie per chiuder partite senza troppe mediazioni.

Ho fatto per una certa parte della mia vita un certo “centralismo professionale” (per quanto non becero e comunque sempre dialogante) per chiedere ai lettori di essere creduto sulla parola.

Stefano Rolando
Componente del Corecom Lombardia e professore di Politiche pubbliche per le comunicazioni a Milano.

 

 

 



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