17 maggio 2016

SI PUÒ FARE SOLO A MILANO

In una società allo sbando che va a destra la collettività milanese e il suo autogoverno


I ‘Panama papers’ documentano «oltre 214.000 enti offshore creati o amministrati da Mossack Fonseca in circa quaranta anni, in 21 diversi paradisi fiscali e per clienti di oltre 200 paesi. Ci sono anche nomi, da dare la nausea. Il re d’Arabia saudita, il presidente argentino, il premier islandese fra dodici capi di Stato e di governo (sei in carica), cui vanno aggiunte 61 personalità vicine a leader mondiali, come Sergueï Roldouguine, amico intimo di Vladimir Putin, o ancora Rami Makhlouf, cugino e grande tesoriere di Bachar-al-Assad. In tutto, 128 responsabili pubblici del mondo intero (alti magistrati, presidenti di banche centrali, ministri, deputati … tutte funzioni teoricamente esemplari)» (1).

04gario18FBÈ L’economia di carta, così battezzata nel 1963 dal consulente legale David T. Bazelon. «Non basta più far soldi e nessuno sa con sicurezza che altro si debba fare» [Milano 1964, p. 239]. Il 12/01/1961 sul New York Times John F. Gordon, presidente General Motors, voleva «“dimostrare al mondo che il sistema della libera iniziativa può essere più creativo di tutti gli altri; e che non solo può creare beni e servizi materiali migliori e in maggior copia, ma può anche creare il potere d’acquisto per assorbire questa produzione, producendo contemporaneamente, come sottoprodotto, più beni e più servizi sociali di qualsiasi altro sistema economico”. Beni sociali “come sottoprodotto”, amici miei: come sottoprodotto. Questa è la forte, autorevole voce del governo illegittimo degli Stati Uniti: il governo privato, che non si cura di ciò che produce fintantoché la cosa gli crea una posizione cartacea privilegiata. E sia chiaro che esso non abbandonerà una formula cartacea di successo se non vi verrà costretto da nuove considerazioni cartacee. O da una pressione sorta fuori del sistema cartaceo» [pp. 305-306].

Poiché «organizzare moltitudini di persone per scopi tecnologici e produttivi è chiaramente un programma politico» [p. 248], la pressione sorta fuori è politica, anzitutto nella Russia di Putin, dopo il neoliberale telecomandato Eltsin. «Fino al 2013, il sentimento generale era che in un modo o nell’altro la Russia sarebbe stata parte della grande Europa. Non è più così, ed è una sfida importante», dice Fiodor Loukianov, redattore capo di Russia in Global Affairs. «Dal punto di vista russo, se siete gentile, nessuno vi prende sul serio. Ma se mostrate la vostra forza, è diverso». «Putin ne è il prodotto, non la causa» (2).

Nel resto d’Europa la pressione è populista e il suo successo «non può essere interpretato come rivendicazione sociale. Ciò che si reclama è una gerarchia sociale giudicata legittima: l’esclusione degli uni è l’inclusione degli altri». «In ogni paese, i partiti di estrema destra veicolano un ritorno elettorale particolarmente importante. Tornati nell’opposizione, cercano nuova vita riallineandosi col desiderio popolare e xenofobo di una gerarchia sociale legittima. Nell’insieme la cosa funziona e di nuovo nutre una domanda sociale autoritaria. Il caso del Freiheitliche Partei Österreichs può servire da prototipo» (3).

In USA «Donald Trump, candidato presidenziale repubblicano favorito, è di destra sporca»,  quella «di chi oltrepassa i confini della decenza democratica, con razzismo, minacce di violenza politica, sfide rabbiose alla legge» (4). «Coi suoi appelli alla supposta “maggioranza silenziosa”, tenta di costruire un soggetto collettivo bianco opposto a chi, ai suoi occhi, non è davvero parte del popolo americano: immigrati messicani, musulmani e ‘perdenti’, i falliti per definizione fuori dalla vera nazione americana (soggetto immaginario collettivo che dal canto suo dovrà capirlo e essere pronto a difendersi, se necessario con violenza, tortura, muri)» (5).

E sul Califfato Philippe-Joseph Salazar critica la nostra pericolosa incomprensione dei fatti: «ecco che cosa nasconde questa volontà di trattare il terrorismo come un’eccezione alla politica normale, e di curarlo come si fa con una malattia: questa retorica della negazione del terrorismo come forma di politica è una retorica della negazione del terrorismo come forma potente di populismo. Il jidadismo del Califfato possiede tutte le caratteristiche di un populismo forte, il populismo che porta avanti le rivoluzioni». «Che questo ‘popolo’ segua delle norme religiose non cambia niente. Bisogna rendersene conto, poiché ciò che si prospetta è un ritorno del mondo all’estasi del populismo. Un accumulo di atti spontanei e azioni di gruppo suscita poco a poco un movimento di coscienza collettiva. E questo movimento, amplificandosi, diventa la logica costitutiva del ‘vero buon popolo’, un’insurrezione violenta del ‘popolo’ che assume una forma politica implacabile e che si traduce in una radicale ostilità nei confronti di chi è stato dichiarato nemico» (6).

Minimo comune denominatore è la forza – economica, elettorale, bruta – che con la persuasione forma la coppia inventata dall’antica Atene: «è un ultimatum che rende il più debole responsabile delle ragioni della scelta imposta dal più forte. La Forza si esprime e lascia alla Persuasione il tempo di svolgere il suo compito, così chi deve morire o sottomettersi può trovare delle giustificazioni e delle spiegazioni. Ha una responsabilità teorica. Questo concetto fondamentale inasprì le relazioni tra gli Stati europei fino alla prima guerra mondiale» [Salazar, p. 79] e sarebbe tramontato solo con l’Unione Europea.

Trovare da sé le ragioni per adattarsi alla forza è la sola scelta che offrono l’economia globale di carta e i populismi, stato islamico incluso, maschere diverse della stessa violenza e dello stesso odio per la democrazia, odio materiale, non ideologico: gli inclusi autoeletti rubano terra, beni e vita agli esclusi designati, come i nazifascisti agli ebrei europei. A fare da promemoria è Jürgen Mossack, co-fondatore di Mossack Fonseca e figlio di un ex ufficiale SS (7).

A questa crescente spirale di violenza possiamo e dobbiamo rispondere usando le risorse offerte «dalla nostra lunga tradizione intellettuale e dall’eredità greco-romana delle nostre nozioni di diritto e di politica. Parlare una lingua esatta e quindi esigente» [Salazar, p. 58]. Anzitutto di democrazia. «Nella prima metà del diciannovesimo secolo, la maggior parte di quanti si preoccupavano del problema dava per scontato che la democrazia dovesse fondarsi su un’ampia diffusione della proprietà. Capivano che i due estremi della povertà e della ricchezza sarebbero stati fatali all’esperimento democratico» (8). Esperimento portato avanti nell’Unione Europea, perciò bersaglio anche dello stato islamico. Ma «contare su se stessi non significa essere autosufficienti. Sono le comunità capaci di autogoverno, non gli individui, che rappresentano l’unità base della società democratica» [Lasch, p. 14].

Milano comunità capace di autogovernarsi, libera dalla trappola della guerra civile tra gli estremi di povertà e ricchezza, si può fare solo a Milano.

Giuseppe Gario

 

(1) Jérôme Fenoglio, «Panama papers: le tournis, le vertige et la nausée», Le Monde, 05/04/2016, p. 22
(2) «La place de la Russie dans le monde est incertaine», intervista di Sylvie Kauffmann, Le Monde, 03-04/04/2016, p. 15
(3) Jean-Yves Camus e Nicolas Lebourg, Les droites extrèmes en Europe, Paris 2015, pp. 294-295 e 296
(4) «The big schmooze», The Economist, March 5th 2016, p. 38
(5) Jan-Werner Müller, «Trump est le seul qui menace la démocratie», Le Monde, 01/03/2016, p. 15.
(6) Philippe-Joseph Salazar, Parole armate. Quello che l’ISIS ci dice e che noi non capiamo, Milano 2016, p. 157 e 165
(7) Anne Michel, «La fulgurante ascension de Mossack Fonseca», Le Monde, 05/04/2016, p. 3
(8) Christopher Lasch, La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Milano 1995, p. 14

 



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