17 maggio 2016

MILANO E LE MODIFICHE COSTITUZIONALI

I guasti di un incauto legislatore e il destino della Città Metropolitana


Ogni problema ha tre soluzioni: la mia, la tua e quella giusta. Così al prossimo epocale referendum costituzionale il mio No e il tuo Si (e viceversa) rischiano di eludere una ragionevole e limitata correzione di quella parte del Titolo V che già fu cambiata nel 2001 con esiti perniciosi: ovvero – nel maldestro tentativo di inseguire le velleità devolutorie e federaliste di una Lega ancora rampante – il rapporto ambiguo ed equivoco allora instaurato tra Stato e Regioni.

07ballabio18FBEbbene tale misura, che ebbe l’effetto di gonfiare impropriamente le funzioni amministrative e gestionali delle Regioni in materie sia “proprie” sia “concorrenti” con lo Stato, generando un confuso rapporto e un’inestricabile contenzioso, è proprio la parte che fu immediatamente attuata. Mentre la parte virtuosa, improntata ai principi di “sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza” che aveva ribaltato la gerarchia tra gli enti costitutivi la Repubblica a partire da Comuni, Province e Città metropolitane è stata dapprima a lungo ignorata e infine stravolta dalla legge Delrio.

Le Regioni, concepite dal Costituente originario come enti legislativi – nell’ambito di “leggi-quadro” nazionali – e di alta programmazione si sono pertanto trasformate in carrozzoni prestatori di servizi ed erogatori di denaro, non sempre guidate da mani ineccepibili per competenza e moralità sia sul versante politico che burocratico. Basti pensare alla gestione diretta e gerarchica delle Aziende sanitarie, che ne assorbono il grosso del bilancio miliardario, allorché la riforma del 1978 conferiva invece le USL (unità sanitarie locali) in capo ai Comuni “singoli o associati”.  Ma non si risolve la questione tornando a un anacronistico riaccentramento ministeriale bensì ridistribuendo poteri e competenze sulla base di una rigorosa sussidiarietà verticale, differenziando le funzioni ai livelli adeguati onde evitare sovrapposizioni, sprechi e conflitti di competenza.

La riforma oggetto del referendum invece scardina la razionale scala dei poteri locali e intermedi prevista, ma non attuata, nella parte positiva del Titolo V come modificato nel 2001, cancellando il rilievo costituzionale delle Province (che andavano ricomposte, non abrogate) e citando pro-forma le Città metropolitane, tanto per non sfigurare in Europa dove quelle vere funzionano ormai da decenni. In Italia, e a Milano in particolare no, tanto da essere definite da Giangiacomo Schiavi un “sogno senza effetti al risveglio” (Corsera, 3/5/2016).

Vedi il caso dei malcapitati organismi tuttora insediati a Palazzo Isimbardi. Mentre erano intenti a giocare al “piano strategico” hanno subito la sottrazione di 36,7 milioni di euro del fondo dedicato dall’Unione Europea proprio alle città metropolitane e invece dirottati tramite un fantomatico PON (Piano Operativo Nazionale!) tutti a progetti interni ai confini comunali e nell’esclusiva disponibilità di quattro assessori della Giunta milanese. Non che le spesso malridotte periferie cittadine non meritino interventi probabilmente prioritari rispetto ai restanti comuni dell’hinterland, ma la relativa decisione a chi avrebbe dovuto competere? Certo è che la febbre acchiappa-voti, per eleggere un Sindaco anche metropolitano, riguarda al momento solo Milano ovvero la città capoluogo della città (non è un refuso ma il disposto della legge Delrio, art.19 e seguenti).

Possibile sperare che la consecutiva campagna referendaria non faccia subire un’ulteriore agitazione mediatica che sposti l’attenzione dal merito della fondamentale questione istituzionale al subdolo plebiscito governativistico? E permetta di non essere compressi nella morsa tra una No puramente conservativo, anche degli svarioni dovuti alle precedenti revisioni, e un Si acritico appiattito su riforme a capocchia, pura affermazione muscolare di una politica a corto di visione e disegno?

Valentino Ballabio

 

 



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