3 maggio 2016
MARCO DAMILANO
LA REPUBBLICA DEL SELFIE
Ed. Rizzoli, Milano, 2015
pag. 285, € 18,50
Una penna acuminata, quella di Marco Damilano, al servizio di una prosa tambureggiante, a volte persino innovativa, in nessuna occasione banale. Secondo il vicedirettore de L’Espresso, le fasi attraverso le quali è passata la vicenda politico-istituzionale italiana vanno riassunte in un icastico trinomio: la repubblica della rappresentanza, quella della rappresentazione e, da ultimo, la repubblica dell’autorappresentazione.
Sulla prima, nata nei Comitati di Liberazione e poi alimentata dalle grandi (forse, a volte, troppo grandi) ideologie del “secolo breve”, tutto è stato scritto e, in ogni caso, per leggerne la filigrana basta andare a confrontare, anche solo per campione, gli interventi dei Costituenti: da Moro a Terracini, da Mortati a Calamandrei, da Perassi a De Gasperi e Ingrao.
La seconda fase, ricorda Damilano, sbrigativamente fatta coincidere con il ventennio della grande ombra berlusconiana, esplode con lo tsunami giudiziario del ’92-’94. Ma la sua affermazione non è del tutto casuale poiché le sue circostanze genetiche, ancorché manipolate e ampliate dai media, sono sostanzialmente frutto di due fenomeni la cui irruzione è avvenuta contemporaneamente nella scena italiana: l’evaporazione del confronto ideologico est-ovest (la fine improvvisa di una storia, si potrebbe dire) e l’affermazione del mezzo televisivo come inveramento unico del messaggio politico.
Ma il piccolo schermo, come è noto, racchiude una trappola percettiva perché impone, moltiplicandola all’infinito, una sola immagine. Così in un lasso di tempo assai breve il paese è transitato dalla politica della rappresentazione di gesti simbolici e riassuntivi (tutti ricorderanno lo stupefacente “contratto con gli italiani” stipulato da Berlusconi in diretta televisiva) alla politica dell’autorappresentazione, del selfie appunto, che contrae in maniera risolutiva il rapporto tra proponente e proposta (politica) assorbendo la seconda nell’immagine del primo. In teologia si chiamerebbe consustanziazione.
Stupirsi e negare il fenomeno, ricorda Damilano, è inutile. L’appiattimento del dibattito e del linguaggio politico sull’immagine e sul corpo del personaggio-vettore non può essere contrastato perché procede lungo il piano inclinato dello slogan, del ricorso alla mimica esplicativa e alla cesura di ogni possibilità di riflessione dello spettatore utente, ridotto a un target, a un bersaglio.
Se il rimedio a un simile avvitamento delle idee e del dibattito dovesse essere ricercato nell’approfondimento delle prime e nel rilancio del secondo, c’è da aspettarsi un’attesa piuttosto lunga.
Paolo Bonaccorsi
questa rubrica è a cura di Cristina Bellon