3 maggio 2016

musica – UN CONFRONTO (IM)POSSIBILE, DAL JAZZ A BRAHMS


UN CONFRONTO (IM)POSSIBILE, DAL JAZZ A BRAHMS

Due serate della scorsa settimana, a ridosso una dell’altra, in due magnifiche sale della città di Cagliari che i milanesi frequentano poco e che pochi di loro sanno essere una città molto musicale: nella prima, l’Auditorium del Conservatorio, un concerto jazz molto particolare, molto “classico”, di tre musicisti (il sardo Paolo Fresu alla tromba, il francese Richard Galliano alla fisarmonica e lo svedese Jan Lundgren al pianoforte) di cui si percepiva – anche senza essere competenti in quel genere musicale – l’elevatissima qualità. Nella seconda, il Teatro Lirico cittadino, un concerto di musica classica ad opera di una collaudata coppia di musicisti (la violinista Kyoko Takezawa e il pianista Edoardo Strabbioli) che hanno eseguito le uniche tre Sonate che Brahms ha scritto, negli anni della sua piena maturità, per quell’organico.

musica16FBUn confronto impossibile, dicevo, perché sappiamo che non si possono paragonare le pere alle mele, eppure … eppure diventa un confronto inevitabile se si è nello stato d’animo di chi, con sufficiente distacco e curiosità, vuole scoprire un mondo diverso dal solito e svelare l’animo musicale di una città sì di provincia ma di una provincia molto indipendente e speciale. E se si è freschi anche di un altro confronto impossibile, quello fra New York e Cagliari, avendo da poco ascoltato un formidabile jazz in una cantina di Harlem e – come ho riferito in una recente rubrica – di un incantevole concerto di musica da camera nella mitica Carnegie Hall.

A parte la prima, banale differenza di età fra il pubblico delle due serate – l’età media, almeno apparentemente, era sotto i trentacinque anni all’Auditorium e sopra i settanta al Lirico – era facile osservare come gli ascoltatori dell’Auditorium fossero assorti e incantati dalla musica mentre quelli del Lirico fossero fastidiosamente afflitti e distratti, complice un improvviso vento freddo, da continui starnuti e colpi di tosse. Ma veniamo alla musica.

La prima cosa da osservare è che nell’organico del concerto jazz non solo mancava la batteria e ogni genere di percussione ma anche l’amplificazione – grazie all’ottima acustica della sala – era ridotta al minimo; sicché i tre strumenti offrivano impasti strumentali sempre delicati e suadenti che non miravano alla pancia dell’ascoltatore, come accade ormai perennemente con la musica cosiddetta leggera e ancor più con il jazz, ma piuttosto alla testa e al cuore. I tre esecutori, ancorché fossero (soprattutto la tromba e la fisarmonica) più che virtuosi dei loro strumenti, non esibivano capacità virtuosistiche; manifestavano invece l’intenzione di rievocare, in un clima di nostalgia e di affetto, temi in qualche misura già appartenenti all’immaginario collettivo senza mai citarli espressamente e persino rendendone difficile l’identificazione. Temi di generi ed epoche diversissime che, spaziando dalla canzone napoletana a quella francese, dai primordi del jazz louisiano fino ai madrigali rinascimentali, venivano rielaborati per il suono dei nuovi moderni strumenti e restituivano insieme classicità e modernità senza che l’una prevalesse mai sull’altra.

Anche gli atteggiamenti e i movimenti dei tre, sul palcoscenico, contribuivano a creare l’atmosfera necessaria alla concentrazione, alla riflessione collettiva, alla magica rievocazione di suoni e sentimenti; dimessi e schivi, in costante comunicazione fra loro e in perfetta intesa, senza la competitività e la sopraffazione che spesso dominano le jazz sessions, i tre strumenti fondevano le voci al punto che quasi si faticava a distinguerle e davano quella mirabile sensazione dell’effetto maieutico che moltiplica a dismisura la capacità dei musicisti quando suonano insieme.

Nulla di più diverso poteva capitare al concerto di musica cosiddetta classica (qui sarebbe più proprio chiamarla romantica, ma non usa!) al Teatro Lirico, dove la manifestazione di divismo della violinista giapponese mortificava il ruolo – che avrebbe dovuto essere tutt’altro che subalterno – del pianoforte e soprattutto tradiva lo spirito di servizio nei confronti della musica che si vorrebbe dall’interprete di un grande autore. Brahms sembrava quasi una scusa per consentire alla Takezawa di esibire le proprie capacità tecniche ed espressive (peraltro non eccelse); e se non fosse bastato il programma ci avrebbero pensato i bis, tutti scelti nel repertorio virtuosistico, a rivelare le reali intenzioni dei concertisti.

Peccato, perché l’integrale delle tre Sonate di Brahms per violino e pianoforte – e cioè le opere 78 in sol maggiore, 100 in la maggiore e 108 in re minore – è un programma colto e intelligente, che consente di avvicinare molto bene la poetica brahmsiana. Scritte fra il 1878 e il 1886, quando il grande solitario era intorno ai cinquant’anni, le tre Sonate e in particolare la seconda e la terza, sono la rappresentazione più profonda dell’intimismo brahmsiano, al pari di quei brevi pezzi per pianoforte che caratterizzeranno la sua ultima produzione, negli anni novanta.

Ecco dunque che il confronto in certo modo diventa possibile; da una parte lo spirito di servizio, di ricerca, sperimentazione, innovazione, di approfondimento del senso. Dall’altra, pur disponendo di un materiale di altissima qualità, una esecuzione acritica e ripetitiva, gravida di esibizionismo, superficialità, con il successo scontato grazie solo alla notorietà delle musiche in programma.

Si ripropone così l’antica domanda: che senso ha suonare sempre le stesse musiche, a distanza di secoli dalla loro composizione, se non si ha la determinazione e la capacità di dare a quei capolavori del passato una interpretazione sempre nuova e ogni volta approfondita, alla luce di una cultura musicale che evolve perennemente, sia in chi interpreta che in chi ascolta, e che rivela a ogni esecuzione nuovi significati di antiche intuizioni?

Paolo Viola

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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