26 aprile 2016

musica – DA SCHIFF A CHUNG


DA SCHIFF A CHUNG

Quanta musica a Milano in questo periodo! Siamo nel pieno delle stagioni di tutte le istituzioni musicali e c’è così tanta musica da sentire che ci si perde, sopratutto se ne perde tanta. Naturalmente questo non vuol dire che sia tutta musica di qualità, anzi, avrei qualcosa da eccepire, ma già il fatto che vi sia da scegliere è una buona notizia. Personalmente non credo di aver scelto tutto bene, tanto che ora provo a dividere il grano dal loglio.

Lunedì 12 aprile Andràs Schiff (che a me pare strano venga indicato ormai sempre, nei programmi di sala, con il titolo di baronetto – “Sir Andras Schiff” – che mi sembra poco consono al ruolo di artista e di interprete) si è cimentato in un programma ardito, quello della esecuzione integrale delle sei Partite per tastiera di Bach. Impresa non da poco se si pensa alla loro durata (più di quaranta movimenti, due ore e mezzo di musica), alla necessità di ritenerle tutte a memoria, alla natura stessa di questo “corpo” che è nato a scopo precipuamente pedagogico (Oreste Bossini dice che è stato “concepito in primo luogo come musica per gli occhi e per le dita di chi le esegue”) il che le rende un po’ ostiche ai non professionisti.

Bisogna però dire che la nota algidità – e rigidità – di Schiff giova molto in questo caso, perché ci restituisce una lezione di grammatica e di logica rigorosamente asettica, scevra da passioni ed emozioni, un suono asciutto ed essenziale, con l’uso molto moderato del pedale, una grande pulizia degli staccati, i pianissimi e i fortissimi (che peraltro Bach non indica affatto) mai sotto o sopra le righe. Insomma Schiff ci porta nel mondo della pura ragione, i sentimenti sono praticamente banditi; per fortuna ogni tanto una provvidenziale “Sarabanda” lo obbliga a timide concessioni che ne umanizzano l’eloquio. (Forse proprio per compensare gli ascoltatori dopo tanta “tecnica”, Schiff ha offerto in bis la dolcissima e poetica “Aria” delle Variazioni Goldberg, con i suoi ritornelli, strappando un’ovazione che è parsa liberatoria!)

Non si può non riconoscere a Schiff una perfezione tecnica e un rigore interpretativo assoluti e impeccabili, nonostante la curiosa civetteria di suonare su due pianoforti, due Steinway dal timbro differente, alternando le Partite sull’uno e sull’altro strumento senza altro motivo che non sia quello di rompere la monotonia dell’esecuzione; in realtà credo che lo faccia anche, o precipuamente, per intrigare gli ascoltatori.

Devo invece stendere un cortese velo sul concerto della settimana successiva – ancora al Conservatorio e ancora per la Società del Quartetto – in cui, sempre Schiff ma in duo con la moglie violinista giapponese Yuuko Shiokawa, ha eseguito tre Sonate per violino e pianoforte rispettivamente di Brahms (n. 1 in sol maggiore opera 78), di Busoni (n. 2 in mi minore opera 36a) e di Beethoven (n.10, anch’essa in sol maggiore, opera 96). Sembrerà strano, ma la Sonata di Busoni (del 1898/1900) è sembrata la più interessante e la più fascinosa delle tre. Forse a causa della loro lettura, come dicevo, troppo asettica. Modesta la serata, con gli interpreti opachi, i suoni spenti dei due strumenti (il pianoforte era il Bösendorfer personale di Schiff, questa volta un unico strumento per l’esecuzione di tre pezzi di autori e di epoche diverse … mah!), insomma un concerto noioso.

musica15FBAltra storia il concerto della Filarmonica della Scala del 18 aprile, sotto la direzione del grande e molto amato Myung-Whun Chung, che ha offerto in apertura la meravigliosa Sinfonia n. 40 in sol minore K. 550 di Mozart e come piatto forte la Quinta Sinfonia in do diesis minore di Mahler. Qui il pubblico si è letteralmente spaccato in due. Da una parte chi ha trovato eccellente Mozart e debole Mahler, dall’altra chi ha apprezzato poco Mozart e molto Mahler. A me è parso che l’esecuzione della celeberrima sinfonia mozartiana sia stata ineccepibile: tempi veloci ma entro la norma, resi accettabili dall’asciuttezza del fraseggio e dalla precisione del suono (la Filarmonica ha dato il meglio di sé), una classicità solare senza indulgenza verso la facile cantabilità dei temi, un “trio” di straordinaria serenità al centro del rude e severo “minuetto” (con gli ottoni e i legni insolitamente perfetti); insomma una vera gioia dello spirito e non – come altri ha ritenuto – un arido perfezionismo.

Tutto è cambiato, a parer mio, con Mahler. Sappiamo che la Quinta è una Sinfonia molto difficile da tenere insieme, che scappa da tutte le parti, che è frammentata e presenta apparenti e frequenti contraddizioni. Proprio per questo serve un direttore che abbia in testa un filo conduttore e quell’unità – o una possibile unità – che Mahler sembra nascondere, come in un gioco, che siamo invitati a cercare e a trovare. Un filo che non è l’unico possibile ma deve pur esserci, qualunque esso sia; ebbene, a me è parso che Chung non lo abbia trovato. Ho trovato tutto un po’ slegato e pasticciato, senza forza; persino l’incantevole ”Adagietto” è parso una melassa un po’ informe, senza leggerezza né poesia, senza quel complicato intreccio di nostalgia, di amore e di dolore che ne fanno una delle pagine più struggenti della produzione mahleriana.

La presenza scenica e l’eleganza di Chung sul podio è tuttavia tale che tutto supera, mandando regolarmente la gente in visibilio. Il pubblico della Scala non è stato da meno e ha accolto trionfalmente il concerto, dimostrando ancora una volta – se ce ne fosse stato bisogno – che la capacità critica nel nostro massimo teatro si manifesta soltanto (in loggione) di fronte agli acuti delle soprano e dei tenori quando sono alle prese con le più celebri arie del repertorio lirico possibilmente italiano (avete mai sentito fischiare Wagner?).

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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