19 aprile 2016

LA CITTÀ DI PARISI E LA CITTÀ DI SALA


Dalle cronache dei quotidiani non ho capito se sia stata una pura coincidenza o se rispondessero allo stesso intervistatore, fatto sta che Parisi e Sala giovedì scorso hanno calato nello stesso giorno la carta “urbanistica” sul tappeto verde della campagna elettorale per le amministrative. Gli altri 11 candidati non hanno ancora avuto modo di farlo o, se l’hanno fatto, la stampa non ha raccolto le loro opinioni.

01editoriale14FBQuel che ha detto Parisi si può riassumere in poche battute: un nuovo PGT, liberi tutti, ognuno padrone in casa sua. Il vecchio mantra della speculazione selvaggia, quella della fine degli anni ’80, quando Carlo Radice Fossati, assessore all’Urbanistica diceva: ”ben vengano gli immobiliaristi con le loro proposte, noi sceglieremo”. È poi finita male: il sindaco si dimise per le vicende Ligresti e le “aree d’oro” finirono in Procura. Noi ora abbiamo ereditato alcuni cadaveri edilizi mai terminati dalle parti di via Ripamonti e edifici terziari destinati al degrado che accolgono chi arriva a Milano. La vicenda “aree d’oro” si è conclusa solo di recente, per merito di questa amministrazione e per l’allora assessora all’Urbanistica De Cesaris. Parisi e forse anche qualche costruttore rimpiangono quei tempi. Noi no.

Giuseppe Sala, che fortunatamente non rimpiange il bel tempo andato dell’urbanistica fai da te, dichiara di voler riprodurre la strategia Expo, quella della rapidità derogatoria, dell’efficienza manageriale ma “opaca”. Peccato. Ma non è detto che lo faccia.

Peccato, perché quando si presentò con gli assessori uscenti suoi supporter al Circolo De Amicis, aveva rivendicato per sé, tra le altre cose, la “modernità” e dunque io mi aspettavo da lui il varo di un’urbanistica “2.0”. Brutta espressione ormai entrata nel linguaggio corrente per indicare una novità che in qualche modo rompe col passato. Per il momento non è così e se, anche per l’urbanistica, il programma dovesse essere quello della continuità rispetto alla Giunta uscente, sarebbe una delusione.

L’urbanistica della Giunta Pisapia non è stata innovativa per la città perché era una sorta di costrizione – per ragioni strategiche non volendo mandare messaggi allarmanti – a consentire che si completassero grandi operazioni immobiliari che non sarebbe stato impossibile fermare – a meno di pagare danni colossali e restituire ingenti oneri di urbanizzazione – arginando le operazioni dove fosse stato possibile e cercando di contenere il contenibile. Il nuovo strumento urbanistico – il Piano di Governo del Territorio – anch’esso è stato frutto della medesima logica. Giustamente pure Sala pensa di mettervi mano, ovviamente non nella direzione di Parisi.

La “strategia Expo” nel caso dell’urbanistica non funziona per due ragioni. Sala aveva un obbiettivo preciso, aprire a ogni costo Expo il primo maggio realizzando, con poche varianti, il progetto che aveva trovato: un obbiettivo ben definito. Il progetto “urbanistico” della Milano prossima futura non c’è. Forse, in secondo luogo, quella strategia potrebbe essere necessaria solo se la città avesse urbanisticamente l’acqua alla gola e si dovessero prendere decisioni urgenti di fronte a un mercato immobiliare dalla domanda ruggente: un’occasione dunque da non perdere. Ma così non è. Nel bene e nel male, pur senza rimandare le decisioni perdendosi in inutili dibattiti politico/accademici, abbiamo tempo per qualche riflessione.

La prima riflessione è che si debba mettere da parte l’urbanistica degli avvocati amministrativisti e l’era dei diritti volumetrici vaganti: la loro stagione sembra finita, non è loro la visione della città, se mai lo è stata, non lo sarà certo per il futuro. Il loro approccio è condizionato da una cultura inadatta ai tempi che ci aspettano. A loro casomai spetta, per il futuro, un duro lavoro di semplificazione legislativa di un apparato barocco quanto basta, del quale in parte sono responsabili, finalizzato più a una perfezione di architettura giuridica che non al bene comune.

In parte lo stesso discorso vale per i cultori della disciplina urbanistica intesa in senso stretto, quando questa disciplina si limiti a prendere in considerazione solo gli aspetti fisici, la “forma urbis“, i canoni della “bellezza” o le regole e i vincoli legislativi in quanto indispensabili o utili al crescere e trasformarsi della città. Ma come abbiamo visto quest’approccio non ci porterà lontano perché bisogna cogliere fino in fondo la complessità, sopratutto parlando al futuro. Il livello più basso, il massimo di semplificazione della politica urbanistica, si raggiunge quando gli interessi particolari – dei residenti locali, degli operatori immobiliari, delle aziende erogatrici di servizi o di trasporto – prevalgono sugli interessi generali.

Ma cosa è allora l’urbanistica 2.0? È uno dei molti strumenti amministrativi che concorre alla determinazione della qualità della vita al pari di altri: non il solo, non il più importante, non autonomo, non prevalente, subordinato agli obbiettivi di qualità della vita, ossia di quell’insieme di azioni mirate a raggiungere obbiettivi primari e secondari che vanno dalla produzione e ridistribuzione di reddito duraturo nel tempo e della ricchezza passando per la generazione di occupazione, per arrivare alla sicurezza sociale, sanitaria e ambientale ma anche partendo dalla riduzione delle disuguaglianze per andare a un migliore equilibrio delle opportunità, muovendo dalle risorse locali per arrivare all’attrattività. Una declinazione complessa. Qui incompleta.

Per inciso la “qualità della vita” è un concetto che va ridefinito per liberarlo della riduttiva prevalente accezione vetero e neo ambientalista. “2.0”.

 

Luca Beltrami Gadola

 



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