23 marzo 2016

VECCHIE PERIFERIE. NUOVI LUOGHI DELLA TRASFORMAZIONE DELL’ESISTENTE


Il dibattito sulle periferie è normalmente condotto su due temi portanti: quello sociale e quello funzionale (inteso principalmente come mancanza di servizi). Questi punti di vista, di importanza fondamentale e primaria, però non esauriscono da soli l’argomento. Anche la morfologia e l’identità urbana giocano un ruolo importante a proposito della qualità della vita degli abitanti.

06deamicis11FBLe periferie sono molteplici: quelle storiche, quelle delle grandi espansioni del dopoguerra e quelle più recenti; i territori dell’edilizia diffusa, quelli dell’edilizia pubblica e infine le periferie industriali. Aree molto diverse per statuto, storia e forma, ma tutte accumunate dalla caratteristica di essere non centrali, non solo e non sempre geograficamente, ma soprattutto dal punto di vista dell’identità urbana; aree che esprimono la loro vocazione, anche dal punto di vista etimologico, per negazione (periferia = zona a margine di qualche cosa di determinato, di riconoscibile).

I fenomeni urbani, sociali ed economici che le hanno generate, sono stati ampiamente analizzati e compresi in tutte le loro sfaccettature da moltissimi studi approfonditi, ma ciò sembra non essere sufficiente al loro controllo e a governare la loro formazione o crescita. Le esperienze migliori hanno riportato risultati ottimi sul piano della conservazione e tutela dei centri storici, talvolta buoni negli interventi di grande scala con portata strategica, quasi sempre scarsi nelle aree di espansione o periferiche, dove le modalità di “autocostruzione” della città appaiono ovunque inarrestabili, ingovernabili, inevitabili, e che ciò che ci rimane – il territorio che abitiamo – sembra non possa essere più modificato con finalità esplicite e condivise, quasi ci fosse una razionalità tecnico/economica che si alimenta autonomamente.

Così dobbiamo prendere atto che, a parte alcune isole felici normalmente identificate nei quartieri più antichi, le forme di questa città ci appaiono nemiche e prive di senso. La città contemporanea ci pone di fronte a delle osservazioni di base che è opportuno assumere come dati di fatto:
* Riconoscere il salto di scala già avvenuto dei fenomeni urbani. Le nuove città sono molto più grandi delle vecchie non solo in termini dimensionali ma soprattutto sul piano delle sfere di interazione.
* Riconoscere il rapporto tempo veloce / tempo lento come carattere della condizione contemporanea. Nelle nuove città convivono in prossimità sistemi locali e sistemi infrastrutturali, ognuno dei quali esprime velocità e manufatti molto diversi.
* Riconoscere che la città sarà il frutto della risignificazione delle tracce esistenti in nuovi universi di senso. Nella nuova dimensione urbana l’identità prevalente non sarà più quella della città antica o quella di nuova costruzione, ma sarà ricostruita a partire dalla città che già esiste, quella dove vive già la maggior parte della popolazione

A partire da questi assunti si ritiene che sia utile cercare di fare uno sforzo interpretativo e teorico per spostare il terreno della discussione dal piano delle forme e delle funzioni al piano delle relazioni, ritenuto l’unico che consenta di dire ancora qualche cosa che interessa più di un singolo individuo.

La progettualità può e deve ritornare al centro della dinamica urbana, con particolare riferimento al progetto delle relazioni (il valore dello spazio tra le “cose” più ancora che le “cose” stesse) che ha la possibilità di essere riconosciuto, oggi più che mai, come il più straordinario e potente strumento di trasformazione e di governo. Flessibile, pratico, veloce, chiaro. Contemporaneo.

Il progetto delle relazioni è infatti sempre più il grande assente nel processo quotidiano di costruzione della città. Esistono i PGT con le loro norme numeriche, e talvolta strategiche, ed esistono poi i singoli permessi di costruire, per loro natura puntuali. In mezzo nulla di utile a convogliare, e orientare, le singole istanze di trasformazione in una visione urbana più grande, identitaria e di qualche valore collettivo.

Gli spazi aperti (non costruiti – pubblici o privati), vista la loro grande disponibilità in tutte le tipologie di periferia, sono naturalmente il terreno privilegiato del progetto delle relazioni, ma anche gli oggetti architettonici, nella loro ineluttabile presenza in un contesto, possono e devono rispondere a una visione urbana. Ogni intervento di modificazione infatti, che lo voglia o meno, introduce degli effetti sul territorio e solo i buoni progetti si fanno carico di dare a essi un senso. Ma siccome non possiamo ottenere buoni progetti per legge, si ritiene che almeno la struttura dei rapporti tra gli oggetti possa e debba essere guidata.

Sotto il profilo operativo significa cominciare a leggere le trame urbane nei termini di Azioni di progetto esistenti o potenziali (che non sono altro che espressione di specifiche modalità relazionali come ad esempio: delimitare, polarizzare, sovrapporre, allineare, collegare, ripetere, ….) in modo da fornire chiare regole di relazione agli interventi di trasformazione, anche puntuale, che man mano nel tempo seguiranno. Il risultato atteso è la formazione progressiva di “figure urbane” che riassumano in termini comprensibili e disegnabili l’identità immaginata e perseguita dalla collettività in un determinato “campo di applicazione”. Infine il sistema di “connessione” tra le figure e le infrastrutture consentirà di regolare il rapporto tra il tutto e la parte, tra la città nel suo complesso e ogni singola specificità locale.

Figure e connessioni sono quindi i punti di arrivo di una nuova città in cui la specificità, la differenza, la riconoscibilità, in una parola l’identità, di un’area rispetto a un’altra, vicina o lontana, sia chiaramente espressa anche con fatti materiali. La loro esistenza si pone come condizione essenziale per la metamorfosi delle periferie da spazi indefiniti e indefinibili a “luoghi”.

Lo studio dei caratteri di formazione della città storica (la centralità della strada, il tessuto denso, il landmark, il parco unitario, la città giardino, ecc. ecc.), ma anche di quelli che si esprimono con nuova forza nella città contemporanea (lo snodo, la grande scala, le aggregazioni lineari, il condensatore di funzioni, la compresenza di infrastrutture, ecc.), e aggiungo anche lo studio di alcune esperienze di arte contemporanea (che esplorano paradigmi inusuali o poco noti e che spesso riescono a vedere “oltre” e “attraverso”), sono fonte inesauribile di spunti per immaginare la visione e il potenziale di ogni singolo comparto urbano, pur avendo consapevolezza che l’aspetto più importante non è tanto la qualità della visione stessa da perseguire ma rifuggire dalla sua mancanza.

Innanzi tutto quindi conta “mettere cose insieme” e per farlo si può partire da qualsiasi punto e con qualsiasi sguardo, anche e soprattutto interdisciplinare. Dal punto di vista procedurale ciò si traduce nell’offrire a ogni singolo permesso di costruire o a ogni singolo intervento di manutenzione un quadro di regole relazionali entro cui esso deve inserirsi, che vale a dire richiamare la necessità di dotarsi di uno strumento urbanistico intermedio prodotto dalle comunità locali che illustri “la visione” urbana e che la trasformi in prescrizioni puntuali. Entro questo quadro il tempo, con la sua imprevedibilità, farà la sua parte, conferendo naturalezza a tutto il processo.

Tutto ciò nella convinzione che abitare luoghi in cui riconoscersi, invece che una qualsiasi periferia, e moltiplicare “i luoghi centrali” sia in ultima analisi un orizzonte con importanti risvolti sociali ed economici.

 

Giacomo De Amicis

 

N.B. Un più consistente sviluppo di questi argomenti, supportato da un ricco apparato iconografico e da un “controtesto” di citazioni di natura molto variegata, è presente nel mio recente libro “Vecchie periferie. Nuovi luoghi. Figure e connessioni per la trasformazione della città esistente” edito da Pubblicomm.

 

 



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