23 marzo 2016

musica – ARGERICH E MAISKY


ARGERICH E MAISKY

Sembrano due capelloni sessantottini, quelli originali, della “beat generation”, rimasti tali e quali mezzo secolo dopo, come il famoso soldato giapponese: lei con i lunghissimi capelli argentei che le scendono lungo la schiena, l’inconfondibile tunicona nera fino ai piedi con il golfino della nonna; lui con la ricca chioma riccioluta, bianchissima, e la collana d’argento che spunta dalla camicia sbottonata (di camicie ne ha una collezione, tutte della medesima foggia e alcune con colori sgargianti e lucenti, che cambia sempre fra un tempo e l’altro). Una coppia fantastica, di cui conosciamo amorevoli fotografie scattate a tutte le età (basta sfogliare le copertine dei loro CD), teneramente vicini, icone della musica colta di altissima qualità.

musica11FBMartha Argerich e Misha Maisky vengono da due mondi opposti, che più diversi non potrebbero essere – dall’Argentina lei e dalla Lettonia lui – e sono amorevolmente uniti da una potente passione per la musica e dal comune modo di intenderla. Quando suonano insieme scatenano grandi emozioni: il pubblico giustamente stravede per loro e – quand’anche li si debba criticare, come farò ora anch’io – non si può negar loro una eccellenza di prim’ordine unita al fascino personale e alla capacità di coinvolgere gli ascoltatori. Da quando iniziano a suonare, fino all’ultima nota, non si sente volare una mosca e persino il pubblico italiano – compreso quello anzianotto delle sale milanesi – smette di tossire e di schiarirsi la gola.

I due si sono esibiti l’altra sera al teatro Dal Verme in un concerto strappalacrime per le Serate Musicali – la stagione di Hans Fazzari e Luisa Longhi – di cui sono stati spesso ospiti: lei 24 volte a partire dal 1982 (ma la prima volta suonò a Milano per la Società del Quartetto nel 1959 e aveva solo 18 anni!), lui dodici volte dal 1990, sicché il pubblico milanese li conosce molto bene e ha imparato ad amarli, sia insieme che separatamente (sono indimenticabili, ad esempio, le Suite per violoncello solo di Bach eseguite da Maisky, sempre al Conservatorio, non molti anni fa).

Il concerto di cui sto scrivendo prevedeva tre opere per violoncello e pianoforte: L’Arpeggione opera D. 821 di Schubert, la Sonata opera 5 numero 2 in sol minore di Beethoven e la celeberrima Sonata per violino e pianoforte di César Franck ma nella versione per violoncello e pianoforte trascritta da Jules Delsart.

Innanzitutto ci si chiede per quale misterioso motivo i due abbiano suonato, nel primo tempo, prima Schubert e poi Beethoven; non solo l’opera 5 precede di circa trent’anni l’Arpeggione ma – nonostante i loro compositori, quando li scrissero, avessero entrambi un quarto di secolo sulle spalle – la Sonata di Beethoven è opera assai meno matura, più “giovanile”, di quella schubertiana, sicché accade che ascoltandola per seconda essa venga sminuita, se ne percepisca poco lo spessore; l’importanza dell’opera 5 è infatti quella di avere innovato il ruolo del violoncello, e cioè di aver creato un nuovo modo di intenderlo come strumento autonomo, liberato dallo storico destino di esser parte del sostegno armonico costituito dal basso continuo. Ma se la si esegue subito dopo l’Arpeggione, che è l’apoteosi del nuovo equilibrio fra i due strumenti, come la si può apprezzare?

Viene anche da chiedersi se è valsa la pena di rispolverare la trascrizione per violoncello della Sonata per violino di Franck che – è pur vero che è stata autorizzata dal suo autore – ma è anche molto meno interessante – e meno “capolavoro” – dell’originale versione per violino (tanto capolavoro da essere una delle opere più amate da Proust). Con l’enorme repertorio di opere scritte per i due strumenti non si capisce proprio perché a un pubblico ansioso di ascoltare meraviglie si debba, di una bellissima opera, propinare la reductio frutto dell’ambizione di un virtuoso in cerca di visibilità.

Veniamo agli interpreti o meglio – la distinzione può sembrare pignola ma è sottile – agli esecutori. Di loro si potrebbe dire che è meraviglioso tutto “ciò che hanno raccontato”, meno straordinario “come lo hanno raccontato”. Mi spiego. È difficile ascoltare una interpretazione altrettanto coinvolgente e commovente di quella offertaci da questa straordinaria coppia di musicisti: ma non si può tacere che la loro sicurezza e l’eccessiva facilità con cui padroneggiano i loro strumenti li abbiano indotti a studiare/provare poco, tanto da incorrere in una serie di microincidenti come scarsa intonazione nei registi più alti del violoncello, intesa imperfetta su alcuni accelerando e rallentando, qualche superficialità nel dettaglio di rifiniture, insomma i tipici incidenti da “superallenamento”, come quando si dà tutto per scontato e non si pone sufficiente attenzione nella cura dei particolari (de minimis non curat praetor!).

Difficile dunque esprimere un’opinione conclusiva e sintetica, confusi come siamo fra l’ammirazione e l’entusiasmo l’intensità dell’esperienza musicale e la delusione (e forse anche un po’ di rabbia) per l’approssimazione e la nonchalance dimostrate, tanto lontane dalla ricerca della perfezione che ci si dovrebbe aspettare da due personaggi di così grande statura e maturità.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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