16 marzo 2016

MESTIERE SINDACO, NEW DEAL


Fare il sindaco è un mestiere? Un’arte? Una professione? Un servizio civile? Un’ambizione? Tante cose insieme, una combinazione di attitudini e un’occasione forse. Qualunque cosa sia stato in passato sarà qualcosa di molto diverso in futuro. Negli ultimi tempi tanto si è parlato – e scritto – di storici sindaci milanesi della sinistra riformista, da Greppi a Bucalossi fino a Borghini nel 1993, cui seguì Formentini e arrivò la destra. Il 1993 è però una data importante nella storia dei sindaci italiani: lo divennero per la prima volta Antonio Bassolino a Napoli, Francesco Rutelli a Roma, Massimo Cacciari a Venezia, Leoluca Orlando a Palermo, Valentino Castellani a Torino, Enzo Bianco a Catania, Riccardo Illy a Trieste, Adriano Sansa a Genova. Nell’insieme un gruppo prevalentemente giovane, Sansa e Castellani 53 anni e Illy 38.

01editoriale10FBEra quello che qualcuno chiamò “il partito dei sindaci”, nato dalle ceneri di Tangentopoli: un partito virtuale ed espressione ideale di una sinistra riformista. Una stagione felice, breve: la speranza che si stesse avviando una politica dal basso, oggi si direbbe “dal territorio”. Da quel momento le direzioni centrali dei partiti, sopravvissute a Tangentopoli, iniziarono un percorso centralista di riappropriazione della politica. La nascita di Forza Italia fu centralista, un partito senza strutture storicamente radicate e la Lega colse al volo, ma in chiave del tutto diversa, il desiderio delle comunità locali di una politica dal basso. Quello che da allora è successo è sotto gli occhi di tutti a cominciare dalle odierne candidature a sindaco fortemente condizionate dalle direzioni romane dei partiti.

Può tornare un “partito dei sindaci”? Forse. Sarebbe utile anzi indispensabile perché il mondo è diventato un luogo fatto di città: tutto ormai nasce nelle città e qui purtroppo va in crisi e anche muore. Chi amministra le città ha in mano il destino del mondo. Le città sono il luogo nel quale si generano ricchezza e valori ma sono anche il luogo dove si manifestano il disagio sociale, il disagio di vivere, il luogo della ricaduta delle conseguenze negative della globalizzazione, il luogo dove il capitalismo selvaggio con la sua divaricazione tra poveri e ricchi lascia il segno del suo trascorrere.

Il modello di governo delle città ha subito un cambiamento radicale in una parte del mondo. Nei Paesi emergenti purtroppo si sta ancora utilizzando quello delle città europee a cavallo tra ‘900 e 2000 – un modello di governo della crescita e dello sviluppo – ma in Europa alcune città hanno già voltato pagina, da noi non ancora: il nuovo modello europeo è quello della riabilitazione che si confronta inesorabilmente con segmenti di dematerializzazione e decrescita, quest’ultima non per definizione infelice ma, come si sa, anche felice. Un percorso certamente segnato dalle condizioni del pianeta ormai allo stremo e con risorse naturali divenute scarse e dunque preziose.

Oggi si parla molto, e molto si scrive, di rigenerazione delle città. A parlarne sono principalmente gli urbanisti. Genericamente si pensa di riprendere in mano i meccanismi della trasformazione urbana con l’obbiettivo di riequilibrare disequilibri esistenti nel tessuto urbano: verde, spazi pubblici, edilizia residenziale pubblica, infrastrutture viarie, tanto per citarne alcuni.

Opportunamente al concetto di rigenerazione si accompagna quello di risparmio di suolo e ove fosse possibile quello di ricupero di suolo eppure, secondo me, non basta perché ci si limita a sanare piaghe del passato e, nella migliore delle ipotesi, a pensare il futuro come prosecuzione lineare del passato.

Io credo che si debba introdurre il concetto di “abilitazione” complessiva: la capacità di essere resilienti e di reagire alle sfide del futuro con una visione olistica della città, una visione che deve accomunare sindaco, giunta e maggioranza consigliare ed essere condiviso dai cittadini partecipanti. La città deve dotarsi di infrastrutture abilitanti che consentano la realizzazione di tutti i progetti dei quali l’amministrazione locale è responsabile sia in senso materiale sia immateriale.

La politica abilitante – abilitante per cosa? – ha tuttavia una condizione preliminare: la previsione di quello che può in futuro incidere sul benessere, la crescita e lo sviluppo di una collettività locale, previsione difficile ma non impossibile costruendo scenari a partire da un’attenta osservazione dell’oggi e ai segnali, ancorché deboli, che si possono avvertire.

Per uscire dal vago provo a fare un esempio. Allineiamo alcuni elementi e mettiamoli in relazione tra di loro: il Jobs act ha determinato 240 mila assunzioni a tempo indeterminato ma il suo effetto cesserà; le nuove assunzioni hanno riguardato la fascia dei cinquantenni e dunque si tratta presumibilmente di assunzioni in attività non innovative ma consolidate e forse mature; il sistema bancario ha messo in mobilità 24 mila dipendenti e altri settori faranno altrettanto; l’occupazione giovanile non sta aumentando; tutti gli esperti di politiche del lavoro e di progresso tecnologico dichiarano che nel prossimo decennio le nuove applicazioni informatiche e la tecnologia dei robot lasceranno a casa la metà degli addetti a funzioni tecniche e amministrative prive di connotati di creatività.

Dove accadrà tutto questo? Dove si manifesteranno le inevitabili ripercussioni sociali? Come ci si deve preparare per attutirne gli effetti negativi? Dove collochiamo questi problemi in una visione olistica della città? Non credo basti constatare quali e quanti “valori” sia in grado oggi di creare la città o quali quantità o tipi di ricchezza economica sia in grado di generare: bisogna che queste capacità siano facilitate con sostegni abilitanti e che nuovi valori e ricchezze siano equamente distribuiti.

Questa credo sia un’ipotesi di approccio per restare agganciati all’Europa e diventare una vera metropoli – la Città Metropolitana – anche se non di primo di piano. Per arrivarci finora abbiamo parlato di politica, ma della struttura burocratica e delle nuove architetture istituzionali – la Città Metropolitana – bisognerà ancora parlare. Alla prossima.

 

Luca Beltrami Gadola

 

 

 

 

 

 

 

 



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