23 novembre 2009

UOMINI PREPOTENTI E DONNE INVISIBILI. L’ANTI- TRUST VS. MERITO?*


Un falso problema**. L’argomento più diffuso contro l’antitrust in politica è che potrebbe essere in conflitto con un sano principio di merito. Ovviamente tutte/i siamo d’accordo sul merito (avete mai sentito qualcuno che affermi “no, il merito non lo voglio”?). Ci chiediamo, però, in base a quali criteri venga valutato il merito. Sappiamo quali sono i criteri di merito con cui Berlusconi seleziona le sue candidate. Più difficile capire quali sono i criteri impiegati dalla sinistra. Il più grande partito di opposizione ha schierato tre candidati maschi – Bersani, Franceschini, Marino – per la segreteria nazionale; questi, a loro volta, hanno candidato per le segreterie regionali rispettivamente il 13%, il 14%, e il 17% di donne.

Quali criteri di merito saranno stati usati? Le possibilità sono due: competenza o motivazione. Può essere stato invocato il criterio della competenza: le donne sono meno competenti dei maschi. Questo criterio è, però, difficile da sostenere dato che ormai le donne hanno raggiunto o superato gli uomini a tutti i livelli dell’istruzione: in Italia, infatti, le donne sono più numerose non solo tra i laureati (il 58% dati MUR relativi al 2008), ma anche tra gli studenti di dottorato (51.7%, Eurostat, 2009).

L’altra possibilità, assai più verosimile, è che il criterio della competenza sia soggettivo. Finché esiste un principio di cooptazione, solo chi è già in una posizione di potere potrà decidere quale “competenza” va richiesta.

Sicuramente i leader del centro-sinistra (Occhetto, D’Alema, Rutelli, Fassino, Veltroni, Franceschini) sono stati scelti sulla base di severi criteri di merito; sarebbe forse stato opportuno esplicitarli più chiaramente. Ricordiamo che questi “professionisti della politica” hanno portato la coalizione progressista ad una lunga serie di sconfitte dal 1994 in poi. Le uniche due vittorie dei progressisti sono state riportate da Romano Prodi. Quest’ultimo, in occasione della formazione del suo secondo governo, si è pronunciato a favore di un sistema di quote.

I criteri per misurare la competenza sono diversi; si sa, per esempio, che quelli impiegati per valutare le donne sono sempre più severi di quelli impiegati per valutare gli uomini (Biernat e Kobrynowicz, 1997). Tuttavia, vincere, come Marilisa D’Amico, la causa sull’incostituzionalità della Legge 40 sulla fecondazione artificiale davanti alla Corte Costituzionale non potrebbe essere considerato un indice di merito per un partito di sinistra? Altro esempio: Lilli Gruber. Parla correntemente quattro lingue, scrive saggi storico-politici di successo, conduce un TG in prima serata nella televisione pubblica, vince prestigiosi premi come giornalista, è visiting scholar alla School of Advanced International Studies della John Hopkins University, raccoglie alle elezioni del 2004 più preferenze di Berlusconi, diventa Presidente della Delegazione Europea per le relazioni con gli Stati del Golfo. Ancora: Rosy Bindi. Ha un curriculum politico tra i più apprezzati; è stata un competente ministro della Sanità (ha saputo, tra l’altro, affrontare con severa imparzialità il delicato caso Di Bella); è conosciuta per la sua dirittura morale; è una dei pochi rappresentanti dell’opposizione capace di rispondere a Berlusconi senza farsi intimidire. Questi non sono meriti? Se lo sono, come mai nessuno ha pensato di candidare Marilisa D’Amico, Lilli Gruber, Rosy Bindi alla segreteria di partito o come primo ministro?

Questi esempi mostrano che non esiste un unico criterio di competenza e che una legge antitrust può benissimo convivere con tale criterio. Includere donne, in proporzione paritetica, nelle istituzioni politiche vuol dire alzare, non abbassare, gli standard. Vuol dire proprio sostenere il criterio del merito, oggi palesemente disatteso per vari gruppi tra cui le donne.

E’ questione di scarsa motivazione? Il secondo criterio concerne la motivazione. Il percorso politico comprende tre tappe: quella che precede la candidatura, la campagna elettorale, il lavoro come rappresentante del popolo nelle istituzioni. Le donne hanno, in genere, meno ambizione politica degli uomini. La differenza, però, riguarda soprattutto la decisione iniziale di entrare in politica: rispetto agli uomini, le donne prendono meno in considerazione l’idea di candidarsi, si candidano meno, esprimono meno l’intenzione di candidarsi in futuro (Lawless e Fox, 2005). Per quali motivi? Ne sono stati individuati tre: il fatto che le responsabilità familiari gravino prevalentemente sulle donne, il maschilismo presente in politica che non incoraggia le donne a intraprendere questa strada, la consapevolezza delle donne che per emergere in politica devono essere molto, molto più brave degli uomini. In pratica, quello che allontana le donne dalla politica è che, per motivi indipendenti dalla loro volontà, vedono scarse possibilità di percorrere con successo tale cammino. Il quadro cambia

però per le poche donne che hanno raggiunto i banchi del parlamento: il loro indice di attività è decisamente superiore a quello dei colleghi maschi (indice calcolato tenendo conto della presenza tra i firmatari di un atto, tra i relatori di progetti di legge, e dalnumero di interventi nel dibattito, Osservatorio Civico sul Parlamento Italiano, 2009). Si può parlare dunque di scarsa motivazione o non si tratta invece di realistica valutazione dei costi/benefici e delle possibilità di successo?

Come reagirebbero gli elettori a una leadership femminile? Una preoccupazione molto diffusa è “come reagiranno gli elettori”? Si sentiranno a disagio trovandosi di fronte a un segretario di partito donna, un primo ministro donna, una presidente della Repubblica?

Gli ultimi dati di Eurobarometro (2008) dimostrano che, rispetto alla media europea, gli italiani si sentono più a disagio non solo all’idea di un capo di stato donna, ma anche di un capo di stato gay, disabile, o appartenente a una minoranza etnica o religiosa. La reazione non sorprende se si considera il clima culturale istauratosi negli ultimi 15 anni, promosso da una televisione in cui le donne appaiono principalmente nel ruolo di mera decorazione, come illustra il famoso filmato di Zanardo “Il corpo delle donne”. Sicuramente hanno contribuito alla diffusione di sessismo, razzismo e omofobia (tre fenomeni altamente correlati tra di loro) anche i messaggi che provengono dal parlamento e dal governo, due istituzioni che giocano un importante ruolo come “norm setter”. Quando parlamentari e ministri insultano sistematicamente le donne non solo a parole, ma anche nei comportamenti legislativi (vedi legge sulla fecondazione assistita, i ripetuti attacchi contro la legge sull’aborto e contro l’uso della RU486, il rifiuto di “quote rosa”), non ci si può aspettare che la popolazione non ne risenta.

Ma è possibile un’altra, forse più interessante, lettura dei dati Eurobarometro. E’ vero che gli italiani si sentono meno a loro agio all’idea di un capo di stato donna rispetto alla media europea, ma è altrettanto vero che, in termini assoluti, dichiarano un atteggiamento molto favorevole (una media di 8.1 su una scala che va da 1 = molto a disagio, a 10 = molto a mio agio). Quindi, in termini assoluti, la maggior parte della popolazione non ha alcun problema con un capo di stato donna. Questo è in contrasto con il comportamento dei partiti, inclusi quelli dell’opposizione, che candidano poche donne e in posizioni perdenti, in fondo alle liste. Nessuna donna è mai stata segretario di un partito importante, né primo ministro o presidente della repubblica. Nei sessantatre anni della repubblica, nessuna donna ha avuto la responsabilità di uno dei quattro ministeri di prima fascia (esteri, economia, interni, difesa). Quindi sono i partiti, e non la popolazione, ad avere problemi con la leadership femminile. Come afferma Ivan Scalfarotto, una delle poche voci fuori dal coro, molti problemi (come la leadership femminile, le unioni tra gay, ecc.) sono da tempo stati risolti dalla popolazione. Chi non è al passo dei tempi sono i politici. In altre parole, rispetto al empowerment politico delle donne, la differenza tra l’Italia e l’Europa non sta nell’opinione pubblica, ma nella classe politica.

Come imporre l’anti-trust della politica? Nella storia dell’umanità, raramente un gruppo dominante ha rinunciato di sua volontà ai propri privilegi. E di privilegi si tratta considerando il potere e gli stipendi (i più alti d’Europa) dei parlamentari italiani. Inutile quindi aspettarsi che i dirigenti dei partiti decidano di loro iniziativa di candidare una donna per ogni uomo. Come possiamo imporre una regola del genere? Approvare una legge è un’impresa impossibile con solo il 20% di donne in Parlamento. La strada delle quote legislative non sembra percorribile.

Ricordiamo che, in Italia, il tentativo di introdurre le cosiddette quote rosa nella legge elettorale del 2005 fu fatto da Stefania Prestigiacomo, allora ministro delle pari opportunità del governo Berlusconi. Dopo lunghe diatribe, lacrime, ironie, sberleffi da parte dei suoi compagni di partito e una serie di bocciature per mancanza del numero legale, nel febbraio del 2006 Prestigiacomo riuscì, con l’appoggio determinante dell’opposizione, a far approvare in Senato un disegno di legge sul riequilibrio di genere. L’opposizione era anche riuscita a far passare un emendamento che portava al 50% la quota del 30%, originariamente prevista da Prestigiacomo. Infatti, nella proposta si affermava che ogni sesso non poteva “essere rappresentato in misura superiore alla metà dei candidati della lista medesima” e che misure equivalenti avrebbero riguardato anche il Consiglio Superiore della Magistratura, la Consulta e tutte le cariche in cui la rappresentanza femminile era ancora scarsa.

Sembrava un miracolo. Peccato che il provvedimento non sia mai tornato alla Camera – la legislatura stava terminando – e sia quindi miseramente decaduto. Nonostante Prodi e le deputate Ds si fossero impegnati a proseguire l’iter nel caso in cui fossero stati eletti, per quanto se ne sa il ddl finì nel cassetto della sinistra, da cui non ha più dato segni di vita.

E nel centro-destra? Nel maggio del 2006 Mara Carfagna, deputata di Forza Italia, entrò in collisione con Stefania Prestigiacomo dichiarando di essere contraria alle quote. La sua posizione, disse, “era condivisa anche all’interno del partito.” Divenuta Carfagna a sua volta ministro per le pari opportunità nell’ultimo governo Berlusconi, di quote dentro il Pdl non si è più sentito parlare.

Resta quindi da percorrere la via delle quote volontarie. Ci rivolgiamo per questo ai partiti dell’opposizione. Chiediamo loro di applicare da subito la norma antitrust nelle cariche interne e nelle elezioni, a partire dalla tornata della prossima primavera. Avendo poca e, da questo punto di vista, silente rappresentanza in parlamento, noi elettrici italiane abbiamo una sola arma democratica per esercitare il nostro diritto di voice (Hirschman, 1982): quella di esigere, in modo coerente e ad alta voce, che in
ciascuna lista elettorale ogni secondo posto venga occupato da una donna. Voteremo per chi rispetta questa regola, non voteremo per liste in cui le donne siano sotto-rappresentate.

 

**Per gentile concessione di MICROMEGA pubblichiamo la seconda parte dell’articolo comparso sulla rivista con il titolo ” 50/50, l’antitrust della politica

**La prima parte è stata pubblicata sul n°35 di ARCIPELAGOMILANO

 

Anne Maass – Chiara Volpato – Angelica Mucchi Faina


 



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