16 marzo 2016

OTTOMILA “MUNICIPI” E MILLE “COMUNI”


L’articolo meritorio di Serena Righini, “Il futuro di un paese con meno campanili” solleva a mio parere una questione centrale. Nella riorganizzazione della pubblica amministrazione, specialmente dopo la semi abolizione delle provincie non è possibile non pensare a un processo di aggregazione dei comuni. Riprendendo alcuni concetti presentati nel mio “Città, territorio, urbanistica tra crisi e contrazione” propongo tre integrazioni all’articolo della Righini: a) in primo luogo vorrei sottolineare come i meccanismi integrativi di tipo puramente procedurale – processuale non siano sufficienti nel promuovere l’aggregazione e quanto sia necessaria una “rappresentazione geografica” dell’articolazione del paese che orienti e indirizzi tali processi; b) in secondo luogo vorrei sottolineare come questo processo sia urgente non solo per raggiungere necessarie economie di scala nell’amministrazione, ma anche per costruire “visioni e progetti di futuro” dei territori che abitiamo; c) in terzo luogo vorrei sostenere, sia la necessità di mantenere i “campanili” per alcune essenziali funzioni di prossimità e principi democrazia, sia di una aggregazione forte che vada ben oltre la prospettiva della unione attribuendo ai nuovi comuni gran parte delle funzioni comunali e tutte quelle delle provincie che non sono fatte proprie dalle regioni.

09lanzani10FBNon è possibile come oggi avviene per le unioni che l’aggregazione si costruisca sulla base di umorali alleanze tra sindaci di una area, in base a soli tetti dimensionali fissati dal “centro” o sotto la sola spinta della ristrettezza dei bilanci e dei tagli dei trasferimenti. È necessario che questo processo si costruisca su una rappresentazione geografica della articolazione plurale del nostro paese, che faccia da guida ai processi aggregativi, coniugando cosi “visione di insieme” e processi “bottom up”. Il riconoscimento di questa pluralità potrebbe portare a superare un ordinamento illogicamente omogeneo dei comuni e da più tempo criticato (tra gli altri da un giurista come Camelli e un geografo come Dematteis e un economista come Barca).

Nel passato come è noto in molte parti del paese vigeva una utile distinzione tra comuni urbani e rurali, oggi si potrebbe pensare a una distinzione tra differenti modi con cui le aggregazione di comuni possono farsi “urbani”. A tal fine propongo una prima distinzione a fini esemplificativi tra: a) reti urbano rurale fortemente integrate delle grandi piane e colline agricole; b) aggregazioni di valle dei comuni montani e di alta collina grosso modo riconducibili a molte delle attuali comunità montane; c) tradizionali medie città con le loro corone di comuni più strettamente integrate; d) conurbazioni/coalescenze urbane legate agli sviluppi delle economie distrettuali e postdistrettuali; d) conurbazioni o reti di centri costieri spesso con una qualche connotazione turistica; e) comuni intrametropolitani, (nel senso delle 7+3 città del documento “città di città” proposte a suo tempo per la città metropolitana milanese da Balducci). Una simile geografia può intercettare alcuni aspetti dei modi estesi di abitare contemporanei e dell’articolazione socio-territoriale dell’economia del nostro paese.

Le ragioni dell’articolazione risiedono certo nel raggiungimento di necessarie economie di scala e nella possibilità di condividere cosi investimenti significativi (Righini), ma anche per ragioni cognitive e progettuali per la possibilità di costruire una qualche reale e sensata “visione di futuro”, una qualche forma di progetto di città o di territorio (per dirla alla Secchi). Ciò vuol dire che al “nuovo comune” vanno attribuite non solo le nuove più complesse funzioni gestionali (del vecchio comune e della vecchia provincia), ma anche funzioni di programmazione e progettazione struttural-strategica che ritroviamo positivamente caratterizzare il governo del territorio in Francia e Germania e in particolare il compito di elaborare le scelte fondamentali di politica infrastrutturale e dei servizi, di uso e di progetto del suolo, di definizione urbanistico-edilizia di alcuni luoghi notevoli (come ha sottolineato tra gli altri Camagni). È in questa sede che progetto di infrastrutture, edilizio, di paesaggio e di ambiente possono trovare una qualche ricomposizione, superando un procedere ipersettoriale di Stato e Regioni. È con riferimento a questo tipo di ente che si può pensare di relazionare in una visione e in progetti puntuali qualche scelta di “disegno di assetto del territorio” e qualche “politica di sviluppo”.

Infine sottolineo come la prospettiva delle “unioni comunali” rischi di essere troppo debole, mentre quella delle “fusioni comunali” rischi di buttare via ciò che di positivo c’è nella storia millenaria “dei nostri campanili”. È certo necessario pensare a delle fusioni, ossia a ciò che ho chiamato nuovo comune, ma nel farlo non possiamo pensare però a cancellare l’importanza di storiche relazioni di prossimità e di loro governo. Per questo si potrebbe pensare alla sopravvivenza degli attuali più di 8.000 comuni a cui magari aggiungere “le zone” dei grandi comuni in forma di “municipi” (con una strategia che ha qualche analogia con quella francese) con funzioni distinte in questo caso per la dimensione e non la tipologia: più rilevanti per i municipi intraurbani delle medio-grandi città e a municipi eredi di comuni di medie dimensioni; più ridotte, talvolta ridottissime ma mai del tutto nulle nei comuni con meno di 5.000 abitanti (il sindaco – senza giunta e con un piccolo consiglio di supporto – un vigile, uno sportello dell’anagrafe e sociale che rimane aperto).

In conclusione si dovrebbe pensare a un panorama di ottomila “municipi” con funzioni e organi di governo totalmente differenziate a seconda delle dimensioni, ma comunque assai minori di quelli dell’attuale comune e legati essenzialmente alle relazioni di prossimità e a qualche cosa di meno di “mille nuovi comuni” con tutte le competenze delle attuali provincie e buona parte di quelle degli attuali comuni (le funzioni di gestione e di progettazione strategica più rilevanti), comuni da organizzarsi non in ragione della loro classe dimensionale, ma secondo ordinamenti plurali che riconoscono la varietà geo socio economica del nostro paese. In questo orizzonte le provincie potrebbero essere definitivamente e veramente abolite e le città (o meglio regioni) metropolitane potrebbero essere – come di fatto già sono – un ente “eventuale” che ha senso nei territori più complessi e integrati: probabilmente molto di meno delle 14 città metropolitane esistenti, ma sicuramente in alcuni casi (Milano, Napoli, Firenze e Venezia), ben più estese dei vecchi asfittici confini provinciali (magari in un contesto di una decina di macroregioni). Ma questo, lo riconosco, è un discorso, ancor più visionario.

 

Arturo Lanzani

 



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