23 novembre 2009

QUALE “VERDE” PER LA CITTÀ CONTEMPORANEA


Il “verde”, nel linguaggio urbanistico, è diventato espressione d’uso corrente; in prima approssimazione tutti sappiamo che sta ad indicare alberi e prati, ma appena tentiamo di approfondire, scopriamo presto che può anche celare una realtà assai più complessa e meno scontata. La natura, il carattere, il significato e il ruolo del verde nella città evolve e muta col mutare della città stessa.

Nella città sette-ottocentesca, compatta e densa, e circondata dalla campagna, il verde prevalente è quello privato, dei palazzi nobiliari e degli enti religiosi, all’interno del quale si cominciano a riservare spazi più o meno importanti all’uso pubblico, per il passeggio, per la vita sociale e per le feste, e ad inserire aiuole ed alberate stradali, con funzione prevalente di decoro urbano.

A Milano il primo parco pubblico , i “giardini”, è progettato dal Piermarini, nella seconda metà del settecento, per l’Arciduca Ferdinando d’Austria: un sistema verde, formato dai boschetti, dai giardini veri e propri e dal passeggio alberato dei Bastioni di porta Orientale, posto a quota più alta e raccordato ai giardini con un gioco sapiente di gradonate; un progetto urbano straordinario per Milano, allora piccola provincia dell’Impero, di 130.000 abitanti.

Da questo primo episodio parte la storia del verde milanese, che è una storia povera, di una città che non ama il verde, di una città ‘in tutt’altre faccende affacendata’. Il completamento dei “giardini” piermariniani, progettato dal Balzaretto a metà ottocento e portato a termine nella Milano unitaria (1862), è un intervento felice, che ci regala quello che ancor oggi è il più importante parco storico della città; qualche decennio dopo, a fine ottocento, si realizza il Parco Sempione, importante per Milano, anche se col vizio d’origine di una collocazione troppo palesemente funzionale alla valorizzazione delle aree della Soc. Fondiaria e di una forzatura del piano Beruto (e che lo stesso Beruto è costretto a denunciare pubblicamente).

Per lungo tempo, da allora, poco o nulla: il piccolo Parco Ravizza; soprattutto, importante per Milano e forse il segno più significativo lasciato sul territorio dal piano Beruto, una serie di viali alberati, di slarghi, di piazze, che ancor oggi contraddistinguono per carattere e dignità architettonica la Milano della prima metà del novecento; a cavallo della guerra, il primo parco esterno, il Parco Lambro; e qualche anno dopo il parco Forlanini.

Ma quello della guerra sarebbe un capitolo tutto da approfondire. Le ferite vaste e profonde prodotte dalle bombe, aprendo nuovi grandi vuoti nel tessuto edificato, hanno aperto anche possibilità e prospettive di riprogettazione radicale della città, con un incremento significativo del verde, che già la cultura europea considerava componente strutturale, e non solo cosmetica, del disegno e della qualità urbana. Niente di tutto questo. Il verde è il grande assente nella ricostruzione postbellica, che sembra guidata da una cultura ancora ottocentesca della città (eppure non erano mancate a Milano proposte stimolanti, quelle ad esempio relative alla ‘sistemazione generale del verde’ di Portaluppi e Semenza, del ’27).

Poi il dopoguerra, gli anni del boom economico, la grande espansione, la necessità di cominciare a ragionare alla scala sovraccomunale , il PIM e la Grande Milano e, per quel che ci riguarda da vicino, il progetto del sistema del verde sovraccomunale e regionale.

E’ in questo quadro, nel faticoso, disordinato (e per molti versi fallimentare) processo di crescita della Grande Milano, il cui esito di fatto è quella conurbazione metropolitana, di più di 4 milioni di abitanti, senza forma e senza governo, che va da Novara a Brescia (lo sprawl, la compromissione estesa, indifferenziata, disorganica e informe del territorio della nuova grande metropoli, che in termini di verde ci dovrebbe porre problemi nuovi e urgenti, di salvaguardia o recupero o riqualificazione sia di aree verdi significative e compatte, che e forse soprattutto di una trama verde minima, fatta di corridoi ecologici e di percorsi, idonea a ridefinire un minimo di forma e un primo principio di riorganizzazione, all’interno e dall’interno, di questa grande conurbazione. Ma questo è un altro discorso, importante, da riprendere in altro momento e con il dovuto spazio.)

In questo quadro di crescita tumultuosa e complessivamente non governata, per quel che riguarda il verde emergono sulla scena milanese due esperienze isolate e all’inizio quasi ‘carbonare’, che rappresentano tuttavia qualcosa di importante e radicalmente nuovo: le esperienze del Parco Nord, da un lato, e del Boscoincittà-parco delle Cave, dall’altro; esperienze simili eppure diverse, per certi versi integrate e complementari, entrambe comunque storie di costruzione di parchi della dimensione di qualche centinaio di ettari, dal nulla, da un territorio cioè nudo e spesso degradato, inventando dal nulla e il progetto del parco e il progetto del processo per poterlo attuare; due storie e due esperienze grazie alle quali possiamo oggi dialogare alla pari con la migliore cultura del verde di livello europeo ( e infatti non a caso Campos Venuti, parlando del Parco Nord, nel ’98, lo definiva “l’unico intervento urbanistico milanese di grande valore internazionale negli ultimi vent’anni”).

Tornando al discorso iniziale, cosa ci dicono dunque queste esperienze (che cadono, è vero, a circa due secoli dai “boschetti” del Piermarini e a cent’anni dal Parco Sempione, ma in un quadro urbano radicalmente mutato, come abbiamo visto) relativamente alla natura e al significato del verde nella città contemporanea ? Ci dicono davvero tantissimo, ci restituiscono un’idea e una funzione del verde nella città, più complessa, più integrata alle dinamiche sociali, motore essenziale di riequilibrio territoriale.

Nell’impossibilità di svilupparli, mi limito ad enunciare i titoli dei paragrafi di un possibile sviluppo del tema.

  • verde come sistema, come rete, come ‘natura in città’, come ambito privilegiato e parte della componente biotica urbana
  • verde come essenziale tessuto connettivo urbano, come ambito di collocazione preferenziale di grandi funzioni pubbliche urbane/metropolitane (ospedali, scuole, teatri, musei, sale da concerto, centri culturali, impianti sportivi, stadi, piscine ecc. ecc.)
  • verde come ambito di collocazione preferenziale della maglia primaria della mobilità dolce (ciclo-pedonale) urbana
  • verde come fattore primario / innesco del processo di riqualificazione urbana / metropolitana, di riequilibrio territoriale, ambientale, paesaggistico
  • verde come luogo (e oggetto di studio e ricerca) della “cultura del verde”(la molteplicità dei saperi che intervengono nella progettazione, realizzazione, gestione, animazione degli spazi verdi) e dell’educazione ambientale, per le scolaresche, per i cittadini
  • il verde e il volontariato sociale ecologicamente impegnato
  • il verde e l’acqua, i laghetti, le zone umide; lo stagno, la vegetazione e gli animali dello stagno; la biodiversità
  • il verde e i bambini (i campi gioco, i campi d’avventura, aulìulè ecc.)
  • il verde e gli anziani (i campi bocce nei parchi, gli orti del tempo libero, i parchi come nuove piazze, nuovi luoghi di aggregazione)
  • il verde e gli sportivi (campi gioco liberi, la corsa, la bici, gli schettini, i grandi prati, gli aquiloni ecc.)
  • il verde e i cani (ed altri amici dell’uomo)
  • il verde e le feste, gli eventi nella città
  • il verde e i punti di ristoro nella città

Questo primo elenco di filoni di ricerca da approfondire non è probabilmente esaustivo, e tuttavia già ci fa capire quanto articolato e complesso sia il dibattito sul verde nella città contemporanea, ben oltre la cultura del “decoro urbano” di ottocentesca memoria, ma anche totalmente altro rispetto alla ‘cultura’ semplificatrice da parco dei divertimenti che di questi tempi sembra talvolta dominante dalle nostre parti.

Già nello stendere questo elenco di titoli mi sono accorto che, se per taluni di essi l’approfondimento potrebbe centrarsi sul racconto di esperienze specifiche del Parco Nord o del Bosco o del Parco Cave, per altri mi verrebbe più spontaneo il ricorso ad esempi e a prassi consolidate di altri paesi europei. E’ormai impossibile pensare ad una cultura del verde che non sia di respiro europeo.

 

Francesco Borella

 



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