9 marzo 2016

EXPO: IL “CONSUMISMO” DELLE PAROLE


Prima che l’evento Expo 2015 sbiadisca nella memoria collettiva, vale la pena riflettere sui regimi retorici che hanno connotato i discorsi su innovazione, sociale e culturale, e rigenerazione. Per farlo è necessario preliminarmente essere d’accordo su almeno un elemento, ossia che l’esposizione universale, o Expo, fin dalla sua origine nel 1851, sia stata intimamente connessa all’idea di innovazione, per lo più tecnico/tecnologica ma non solo. Ossia che la sua fascinazione e il suo successo siano profondamente correlati con l’idea di progresso e di sviluppo industriale. Idea che rimanda a una galassia di valori tipici della borghesia ottocentesca e novecentesca e che non può non sedurre quelle persone che sono state formate, nel bene e nel male, in base all’assunto che tutto ciò che è nuovo sia anche migliore. Se su questo punto siamo d’accordo, possiamo accostarci al tema che voglio trattare qui brevemente.

08liberatore09FBFacciamo un esperimento: immaginiamo di avere a disposizione un compilatore automatico di frasi sull’innovazione a uso di politici, lobbisti e opinionisti vari. Da quali espressioni sarà formato? Si potrebbe fare un lungo elenco. Io mi sono limitato a raccogliere quelle che tornano con maggiore insistenza e a dividerle in due grandi gruppi:
* le parole dei sinceri democratici: democrazia, cittadinanza, comunità, territori, mercati, rete, piattaforme, bene pubblico, bene comune, benessere, sviluppo, partecipazione, condivisione, sostenibilità, trasparenza, merito, talento, diritti, bisogni, interessi, valori;
* quelle degli “startuppari”: futuro, cambiamento, innovazione, sperimentazione, passione, creatività, resilienza, rigenerazione, housing sociale, open, start-up, storytelling, crowdfunding, device, app, coworking, lab, fablab, maker-space.

Di per sé queste parole, prese astrattamente, sembrano avere un significato tutto sommato positivo e rimandare a concetti condivisibili che possono dar vita a pratiche in grado di rompere con un passato fatto di immobilismo e di decisioni calate dall’alto. Ossia con l’idea che un po’ tutti abbiamo dell’Italia, della sua politica e della sua burocrazia: un paese perso nel suo passato, dove la banda larga, una serie di diritti civili e il reddito minimo sono fantascienza mentre sono già diffusi in quasi tutti i paesi europei.

E, infatti, si può dire che le parole che ho elencato sono attraversate da una medesima istanza, quella che possiamo definire come “azione dal basso” o bottom-up, qualunque cosa voglia dire questa espressione. Ossia sono attrattive perché fanno pensare a un cambiamento atteso, invocato, ineluttabile. Un cambiamento fatto da persone comuni per persone comuni o, come direbbe qualcuno, dalla gente per la gente.

È però vero che politiche basate su questo tipo di retorica, assunta ingenuamente per buona e positiva, ci mettono nella condizione di essere ciechi nei confronti delle sue conseguenze a medio e lungo termine. Spesso, infatti, e lo si vede bene in alcune esperienze di sharing economy, quello che si presenta come nuovo non è altro che un volto nuovo del capitalismo, un capitalismo 2.0, innervato, nelle sue logiche, dallo spirito libertariano della californian ideology, quello che fa suo il motto “meno stato e più mercato”.

O, come dicono Barbrook e Cameron, autori dell’omonimo saggio del 1995: “una miscela di cibernetica, economia liberista e controcultura libertaria […]. Un’ideologia che combina il libero spirito degli hippies con lo zelo imprenditoriale degli yuppies. Quest’amalgama di opposti è stato ottenuto per mezzo di una profonda fede nel potenziale emancipatorio delle nuove tecnologie dell’informazione […]. Nell’utopia digitale ognuno potrà essere ricco e felice. Non sorprendentemente, questa visione ottimistica del futuro è stata entusiasticamente abbracciata, attraverso tutti gli Stati Uniti, da nerd del computer, studenti scansafatiche, capitalisti innovativi, attivisti sociali, accademici di tendenza, burocrati futuristi e politici opportunisti”.

Questa ideologia è stata efficacemente sintetizzata dal collettivo Ippolita nel loro Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo: “libertà individuale realizzata solo in termini di scambi economici e monetari; individui considerati come attori liberi per natura, che attribuiscono un valore totalmente soggettivo a oggetti, servizi e utilità disponibili in un ideale mercato libero capitalista; deregolamentazione assoluta necessaria alla realizzazione del mercato buono per natura, privo di interferenze statuali o comunque sovra-individuali; proprietà come diritto naturale posto a fondamento dell’identità individuale; accumulo di beni e utilità come fine e contenuto stesso del concetto di libertà”.

Di fatto, stiamo assistendo a una riscrittura del senso comune. È quindi della massima importanza non fermarsi all’aspetto seduttivo di certe espressioni ma indagarle criticamente, per comprendere quale sia l’ordine del discorso che le informa e distinguere così quelle esperienze autenticamente di rottura da quelle che non fanno altro, nel migliore dei casi, che prolungare lo status quo.

A questo quadro sommario e veloce va aggiunto un altro tassello, quello sull’innovazione sociale e la sua origine. Non è, come si potrebbe pensare, un’espressione neutra, figlia dello sviluppo tecnologico degli ultimi anni, ma si rifà direttamente all’esperienza politica di Tony Blair e al lavoro di think tank come Nesta (Fondo Nazionale per la Scienza, Tecnologia e le Arti) e Young Foundation e a personaggi come il consigliere strategico di Blair, Geoff Mulgan. Ossia, si rifà a una situazione politica e sociale post-thatcheriana che si scontrava con i risultati di scelte politiche ispirate alla Scuola di Chicago e alle loro teorie neoliberiste. La social innovation è stato lo strumento che ha permesso a Blair di rispondere ai bisogni sociali, senza dover modificare gran parte delle riforme thatcheriane.

Concludendo: Expo, su questo ci siamo accordati all’inizio, basa la sua fascinazione sull’innovazione industriale e tecnologica, ossia su una cornice concettuale omologa e perfettamente compatibile con quella della californian ideology. Non sorprende quindi che Expo e le politiche cittadine che inconsapevolmente o tacitamente si rifanno all’ideologia californiana e alla social innovation, si trovino a condividere regimi discorsivi affini.

Da qualche anno, in Italia si parla molto di innovazione sociale e culturale, start-up e impresa sociale. C’è chi ne parla e basta e c’è chi la fa (con successo o meno), come sempre accade quando un’espressione e un insieme di pratiche si afferma nel dibattito pubblico e politico. Gli attori di questo settore fondono una voglia di auto-imprenditorialità a una forte spinta etica; su questi temi mi permetto di rimandare ai saggi di Carolina Bandinelli e di Maurizio Busacca che bene illustrano questo genere di dinamiche.

Ai nostri fini, quello che occorre fare è dunque rompere l’incanto dell’affabulazione mainstream attraverso un lavoro di documentazione, per essere in grado di operare efficacemente il necessario discrimine tra progetti, proposte, esperienze di valore e l’inevitabile social washing attualmente in corso.

 

Marco Liberatore

 

Relazione presentata al Convegno Off Topic “Il potere a Milano dopo Expo” Milano 17 febbraio

 

 



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