24 febbraio 2016

UN PALAZZO MARINO PER MANAGER


Non mancano i soliti accenti preoccupati provenienti da un certo milieu cultural-politico-giornalistico, tendenzialmente salottiero e da ciò che rimane delle corporazioni, per l’involuzione politica di Milano, dove, horror vacui, a contendersi la poltrona di sindaco, sono ben tre manager, i cui curriculum, peraltro, annoverano esperienze sia private e sia pubbliche.

05merlo07FBDall’alto di un’autoreferenziale superiorità culturale di matrice professionale che pretenderebbe di dettare le tendenze, non ci si è accorti della crisi da involuzione dei partiti ai quali si pretenderebbe di continuare a dettare la linea.

La “politica” dei partiti è stata estromessa di fatto, dalla “Rivoluzione Togata” del 93, che ha consegnato la città ai “Podestà”, designati da Arcore, mentre i partiti si sono auto costretti a rispettare i conformismi di una declinazione da maggioranza e di una da opposizione, che nel tempo li hanno condotti a estraneità dalle mappe politiche generate dalla modernizzazione del terzo millennio. Ciò ha rappresentato un vulnus per l’autonomia del sistema politico milanese che fatica a riaversi sia dall’eclisse di leadership di Berlusconi e all’opposto dai retaggi irrisolti del XX secolo.

L’impetuosa velocità imposta dalla modernizzazione che stravolge sia il concetto di tempo che di territorio, costringe a fare i conti con gli antichi problemi e con temi per molti aspetti assai diversi da quelli che hanno contraddistinto la storia del nostro paese e le fazioni che in essa si sono costituite.

Sono aspetti che attraversano le fazioni, soprattutto se osservate dalla prospettiva delle nuove generazioni, la cui visione politica della vita è assai diversa dalla cultura generata dalle corporazioni e che per decenni hanno agito da propellente per le fazioni stesse.

Lo scenario della quotidianità ha generato e caratterizzato terreni post ideologici, con sfaldature, non solo simboliche rispetto al passato, e che politica e cultura non hanno saputo o voluto né cogliere né interpretare in modo adeguato.

In un Paese conservatore, quasi a 360°, in cui si privilegia la forma rispetto alla sostanza, si preferisce trincerarsi in enclave identitarie, che servono a consolare solo quelli che vi si riconoscono, facilitati proprio da una dei cardini della conservazione: quel rifiuto della modernizzazione che accomuna sia il funzionamento della pubblica amministrazione che molte professioni, matrice per questi ultimi, di diffidenza verso la vocazione politica di espressioni manageriali.

Un saggio di tutto questo, è rappresentato dalle recenti primarie, ove la dialettica è stata caratterizzata, da parte di molti dei soliti noti, da uno schierarsi a prescindere, in avversione alla figura del manager, geneticamente insufficiente perché non espressione della politica tradizionalmente intesa, e nemmeno di quella del milieu che pretende di rilasciare i certificati di buona politica, e nell’occasione, ricorrendo alla strumentalità di declinare la Milano del futuro ricorrendo ai paradigmi del 1993.

E’ del tutto evidente, che affrontare il futuro ricorrendo alle categorie del secolo scorso, o alle loro imitazioni si finisce per non saper coniugare congiuntamente, i problemi generali con quelli individuali, la cui separatezza rischia di compromettere sia le libertà e sia la percezione di democrazia.

I diritti civili sono solo la punta di un iceberg più complesso, in cui l’insoddisfazione per i diritti reali e per quelli percepiti come tali, agisce da facilitatore per le infiltrazioni degli “imprenditori” del populismo elettorale: minaccia alla democrazia, ogni qualvolta non si riesca contrapporre le ragioni della loro non soddisfacibilità.

Le risposte non possono essere la promessa di Nirvana, bensì la capacità di poter recuperare le risorse da reinvestire, innanzitutto con una gestione più efficiente e razionale di quelle già disponibili e dando evidenza di capacità di recuperarne ulteriori da destinare sia alle priorità sia riducano i disequilibri di una comunità e sia a quelle che fungano da volano per le nuove: in democrazia l’unico Nirvana è la capacità di condividere.

Ogni qualvolta la politica rappresentativa, non riesce a essere né autosufficiente né auto consistente, il ricorso al “podestà”, appare a volte come l’unico rimedio possibile, nella speranza che la competenza coniugata con la visione, possa trasformarli in illuminati borgomastri; ma il podestà non potrà trasformarsi in borgomastro se i partiti non riusciranno a loro volta a rinnovarsi e se non si adopereranno per creare le condizioni per una permanente simbiosi mutualista della governance con le dinamiche e con le eccellenze civiche della comunità.

In questo percorso, non sono certo di aiuto, i trasformismi che sono preannunciati per Milano, dove l’essenziale esigenza di civismo si inflaziona per mascherare: la crisi di partiti e movimenti in disarmo, che confidano in unioni salvifiche, a salvaguardia dei propri notabili; o di partiti che occultano le proprie insegne, causa l’impossibilità di sintesi unitarie e di autonomia da schemi che costringono a travalicare le esigenze di governabilità locale; così come la ricerca del San Sebastiano di turno, votato al sacrificio per la salvaguardia dell’identità e per concorrere alla sconfitta della sinistra che sbaglia.

Anche la stravaganza di appelli ai partiti per tendersi elettoralmente i liquidi, lasciando liberi tutti in alternativa alla richiesta di voto per i propri simboli e per i propri programmi, per supportare l’estemporaneità di candidature virtuali da trasformare in politiche, in una disordinata fuga dalla realtà, che pericolosamente incoraggia la destra a osare.

La confusa situazione della sinistra milanese, sembra suffragare il titolo del saggio di Stefano Feltri “La Politica non serve a niente”, toccherà a un manager smentirla, e per questo confidiamo che questo manager sia Beppe Sala.

 

Beppe Merlo

 

 

 



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