24 febbraio 2016

UN’EMERGENZA NAZIONALE: LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE


Una premessa: nella Pubblica Amministrazione lavorano tanti bravi funzionari: onesti, preparati, capaci, attivi; addirittura eroici, visto i problemi che devono affrontare con poche risorse. Ciò premesso (non per ritualità, né per piaggeria: è la verità), passiamo al resto, ovvero alle cattive abitudini e ai motivi di malfunzionamento di molte istituzioni. Penso infatti che questo dell’inefficienza della PA sia un tema cruciale nella situazione nazionale, almeno (se non di più) del tema – molto al centro dell’attenzione – della corruzione, che se pur abbietto e ahimè tuttora presente, mi chiedo se abbia altrettanta incidenza complessiva. E questo non solo in termini di tempi persi e di dissipazione di risorse, ma anche di profonda incertezza sulle possibilità di intervento.

08nessi07FBCi sono vari motivi all’origine di tale incertezza. Uno, molto noto, è la cattiva qualità dei testi normativi: scritti in modo ambiguo o addirittura contraddittorio, in continua mutazione a seguito di aggiustamenti o di diverse interpretazioni giurisprudenziali (per non parlare poi delle abnormi circolari interpretative, che spesso introducono elementi non presenti nei testi di legge, aumentando la confusione anziché la chiarezza), consentono, come si dice di solito, tutto e il contrario di tutto: per cui a volte capita che addirittura nella stessa stanza i due funzionari addetti alla medesima consegna diano interpretazioni esattamente opposte alla stessa norma, per cui per uno “non se ne parla proprio”, per l’altro invece “è ovvio che si può fare” (probabilmente non si parlano); il buon esito dell’iniziativa dipendendo alla fine dalla presenza del primo o del secondo funzionario nella stanza … .

Un altro poi, abbastanza noto almeno agli addetti ai lavori, è la distorsione applicativa voluta. La norma dice questo? Ebbene, per me è il contrario (per motivi magari nobilissimi, per carità). E se non le va bene, “mi faccia pure ricorso”. Bene, questa è la tipica frase che non si vorrebbe sentire più. Perché si poggia su alcune terribili premesse: innanzitutto, che un’eventuale decisione dei tribunali arriverebbe minimo dopo due-tre anni, quando oramai le ragioni dell’iniziativa sarebbero verosimilmente venute meno; due, perché i costi del ricorso sarebbero comunque a carico di chi lo intraprende e della collettività, non del funzionario stesso (se non in rarissimi casi); infine, perché comunque i tribunali, appoggiandosi per le materie tecniche su consulenze d’ufficio non sempre del tutto affidabili, spesso arrivano a esiti imprevedibili e distorti (un mio amico avvocato – un po’ cinico in verità – sostiene addirittura: “Faccio ricorso solo quando ho torto, chissà che invece non mi diano ragione. Se si ha ragione invece non ne vale la pena, perché si perde troppo tempo, e chissà come va a finire”). E così per non perdere tempo di finisce per accettare (ovvero per subire) anche decisioni improprie.

Perché questo avviene? Inutile nasconderselo, alla politica questo sistema fa comodo perché le consente di avere sempre l’ultima parola (cosa che a che fare fino a un certo punto con la tutela dell’interesse pubblico a cui normalmente ci si appella). Pensate ad esempio a tutti quei testi normativi in cui si può fare qualcosa “previo parere favorevole dell’Amministrazione”. Ma favorevole in base a che cosa? A quali criteri, che spesso non vengono neanche esplicitati? Le norme sono volutamente ambigue, perché questo consente di declinarle a seconda delle circostanze (cosa in linea di principio non sbagliata, per carità) ed esercitare così potere tramite gli apparati, dei quali i politici di turno diventano temporaneamente signori, in parte complici, in parte vittime. Ma se ogni volta che un cittadino vuole prendere un’iniziativa deve mettersi in coda a elemosinare un’interpretazione certa (ancorché sempre soggetta a ripensamenti) da parte di uffici infastiditi dalle troppe richieste (e come potrebbe essere altrimenti, in una situazione come questa? e guai a lamentarsi, c’è il rischio che si vendichino…): chi mai credete che vorrà investire denaro vero in interventi magari positivi, con il rischio di vederlo svanire per un battito di ciglia o uno sbalzo d’umore dell’apparato?

Insomma, il danno che viene creato con questi malfunzionamenti è spesso superiore a quello che si vorrebbe evitare con le continue limature legislative,  i vari “salva-Italia” e “sblocca-Italia” con cui si finisce in realtà per fare pasticci, aumentare la confusione e l’incertezza normativa.

Cosa si può fare invece? Tralascio gli aspetti politici, più dibattuti e al centro dell’attenzione, per concentrami maggiormente sul ruolo degli uffici. La crescente protesta dei confronti del ceto politico, infatti, paradossalmente finisce per assegnare sempre più potere agli uffici; siamo arrivati insomma alla situazione anomala per cui i Consigli Comunali – eletti dai cittadini – non decidono più nulla, mentre funzionari pubblici – non eletti da nessuno e per di più inamovibili – prendono decisioni importantissime che hanno forti impatti sulla collettività. Credo quindi importante concentrarsi su quest’ultimo punto.

Cosa servirebbe quindi? La prima cosa è un cambio di mentalità. La Pubblica Amministrazione non dovrebbe più guardare chi interviene come se fosse una “controparte”, un avversario da bloccare e non un cittadino che vuole semplicemente fare qualcosa. Bisognerebbe anche smettere di considerare le interpretazioni più restrittive maggiormente “corrette” semplicemente perché non fanno guadagnare, e di sospettare invece delle interpretazioni più aperte, solo perché sono remunerative. La vera distinzione dovrebbe essere fra chi risolve in modo legittimo i problemi e chi si limita invece a bloccare tutto, non fra “imprecisi” e “perfettini” (che comunque non equivale a quella “scorretti/integerrimi”).

L’altra è quella di aprire più spesso le finestre e fare girare un po’ d’aria. Un po’ di continuità va bene, per carità, ma gli apparati finiscono spesso per essere troppo persistenti e quindi autoreferenziali, se non peggio; anche se in verità il rischio che sia così c’è un po’ per tutte le grandi organizzazioni, pubbliche e private, in Italia e all’estero. Ma altrove c’è più confronto, più ricambio, più mobilità. E quindi ad esempio una buona cosa sarebbe ogni tanto l’avvicendamento, la rotazione fra i settori, che favorirebbe anche l’esperienza e la formazione dei funzionari. Ma anche i dirigenti, inevitabilmente specializzati in una materia, potrebbero ogni tanto cambiare sede o istituzione (dal Comune in Regione, da qui al Ministero; e viceversa).

Avrebbero una visione più aperta della realtà, e in fondo è quello che avviene fra i magistrati, i dirigenti di impresa, i segretari generali o quello che avveniva a suo tempo nel genio civile: ogni tanto si cambia sede, si confrontano le esperienze, non si consolidano personalismi: qualcosina per fortuna sta cambiando in questo senso. L’altra cosa da modificare è l’inamovibilità. Dimentichiamoci che sia garanzia di indipendenza, chi è veramente indipendente per capacità lo è comunque. L’inamovibilità serve invece a stabilizzare posizioni di potere, da cui non si torna mai indietro (e a furia di “promoveatur ut amoveatur” spesso è proprio ai vertici che troviamo i peggiori…).

E infine bisognerebbe tornare ad aprire i concorsi anche al mondo professionale. Oggi come oggi, un titolare ad esempio di uno studio di ingegneria, posto che volesse partecipare a un concorso per dirigente dei lavori pubblici, grazie a una delle tante “riforme” non lo potrebbe fare (di massima, è richiesto che sia già dipendente; un tempo non era così). Che senso ha? Ma soprattutto: chi può averne paura? Una pubblica amministrazione più efficiente è per il bene di tutti; per chi ne fa parte, per chi con questa deve avere a che fare, ma anche e soprattutto nell’interesse della cittadinanza.

 

Giovanni Nessi Broglia



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