24 febbraio 2016

musica – MUSICA CONTEMPORANEA A TORINO


MUSICA CONTEMPORANEA A TORINO

Venerdì scorso, all’Auditorium Arturo Toscanini della RAI di Torino, si è concluso il ciclo Nuova Musica 2016 ridotto – per le solite drammatiche difficoltà finanziarie – a tre soli concerti tenutisi il 4, il 12 ed il 19 febbraio; progettato dal direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI Cesare Mazzonis – che insieme ai colleghi dell’Orchestra Filarmonica della Scala di Milano, dell’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino e dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, ha appena commissionato una nuova composizione all’ungherese Peter Eötvös – il ciclo Nuova Musica 2016 ha presentato una accurata selezione della produzione più rappresentativa della musica colta contemporanea composta da “brani di compositori affermati e di giovani promettenti” a cominciare dal nuovissimo Il viaggio di Er di Orazio Sciortino.

musica07FBIn programma venerdì vi erano il Doppio Concerto opera 27 n. 2 per violoncello, pianoforte e due gruppi strumentali dispersi nello spazio di György Kurtág (del 1989/90), il Testament – Music for orchestra di Brett Dean (scritto nel 2002 per 12 viole e trascritto nel 2008 per orchestra) e il Walddämon – Scene da un romanzo di Fabio Vacchi (2014); il concerto ha consentito un significativo confronto sia fra musicisti di diverse generazioni e di varia estrazione culturale, sia fra musiche con diverse intenzioni programmatiche. Vi era nell’aria anche un gradevole sentimento di familiarità con i compositori, dovuto alla felice circostanza che sia Kurtág che Vacchi festeggiavano entrambi il compleanno, essendo nati tutti e due – seppure a distanza di una generazione – il 19 febbraio; Kurtág nel 1926 (compiva dunque novant’anni, che purtroppo non gli hanno permesso di essere presente) e Vacchi ventitre anni dopo (il che gli dava una invidiabile freschezza e baldanza). L’australiano Dean, il più giovane dei tre e il meno noto, ha “solo” 54 anni.

Ho detto “musica a programma” ma in realtà lo è per modo di dire. Perché, se è vero che le composizioni di Dean e di Vacchi si ispirano direttamente ed esplicitamente l’uno al Testamento di Heiligenstadt di Beethoven e l’altro a un breve romanzo di Amos Oz (D’un tratto nel folto del bosco), è anche vero che in Kurtág, pur mancando un riferimento letterario, la “regia” rende anche quella composizione in qualche modo “descrittiva” e “narrante”. La sua esecuzione infatti richiede un doppio organico orchestrale distribuito in tutta la sala, tanto da costringere il giovane direttore d’orchestra estone, Olari Elts, a curiose torsioni del corpo per dirigere rivolto più agli spettatori che al palcoscenico e i solisti – il violoncellista Francesco Dillon e il pianista Emanuele Torquati – ad altrettante acrobazie ritmiche.

Ho già confessato di aver praticato assai poco, per non dire affatto, la musica contemporanea dopo l’indigestione che ne avevo fatto nel suo peggior periodo, quello degli anni sessanta e settanta; spero dunque che mi si perdoni qualche ingenuità, come quella di credere che il confronto vero fra le tre opere è consistito più nel diverso senso dello scriver musica che nel senso stesso della musica. Per quanto diversi per indole, cultura, sensibilità, i compositori fino alla metà del secolo scorso si ponevano riguardo alla musica nella stessa posizione dei loro predecessori e l’atto dello scriver musica non mutava il loro obiettivo fondamentale; qui ci troviamo davanti non solo a diverse “strategie compositive” ma anche a diversi obiettivi. Mentre Kurtág cerca di sorprendere il pubblico con l’inusualità dell’approccio e con la ricerca di nuovi orizzonti sonori, lavorando più sulla scansione dello spazio e del tempo che non sulla discorsività e sulle emozioni – che sono la base della comunicazione in musica – Dean non cerca affatto di sorprendere, anzi; si pone proprio nel letto della musica romantica e va a scavare nei dolori di Beethoven lavorando sui suoi stessi temi per approfondirne il rapporto con i tratti biografici.

È alla luce di questa sperimentalità un po’ sterile che ho trovato di grande intelligenza musicale la composizione di Vacchi. Il suo riferimento letterario è meramente mentale, come lo è stato per tutti i grandi musicisti (dalla Pastorale di Beethoven ai poemi sinfonici di Mendelssohn, per non dire dei titoli di Liszt e di Chopin), serve all’autore per tracciare e seguire un percorso, ma non viene imposto al pubblico per catturargli attenzione con artifici e sorprese.

Fabio Vacchi scrive un poema sinfonico che si ascolta tutto d’un fiato avendo come unico orizzonte il mero piacere di ascoltarlo, di ascoltare cioè una musica certamente nuova ma senza inutili provocazioni, senza allusioni e arzigogoli, una musica che si racconta da sé senza bisogno di chiose né di “chiavi di lettura”.

La serata è stata curiosamente preceduta da una performance di musica elettronica proposta da Daniele Mana e intitolata Vaghe Stelle che si è svolta nel foyer dell’Auditorium ed è stata replicata nell’intervallo con la elaborazione di temi presi dalle musiche di Kurtág e di Dean appena ascoltate. Una sorprendente contaminazione fra generi totalmente diversi in perfetta sintonia con un pubblico, giovane e giovanissimo, che non siamo abituati a vedere nelle sale da concerto e che in questo modo viene introdotto alla musica cosiddetta “alta”. Chapeau, Torino.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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