24 febbraio 2016

la posta dei lettori_24.02.2016


Scrive Matteo Maraffi a proposito di immobiliaristi ed elezioni – Gentile Direttore, segnalo, se già non ne fosse a conoscenza, il caso dell’area ex Turati e Lombardi in via dei Pellegrini, piccola traversa di corso Porta Romana. Caso emblematico di come la speculazione edilizia cerchi sempre l’occasione di sfruttare le aree edificabili aggirando regolamenti ed uffici. L’area in questione, occupata per circa cinquant’anni dalla citata stamperia di carte valori, è stata ceduta negli anni ’80 ad una società immobiliare, che ha demolito i fabbricati esistenti, magazzini di un solo piano attorno ad un grande cortile, ed ha ottenuto i permessi per costruire sei piani di box interrati. Con il procedere dell’immenso scavo terribili furono i disagi per gli abitanti della via, soprattutto per l’incessante andirivieni di enormi mezzi da cantiere, fino al crollo di una grande porzione della sede stradale che inghiottì diverse auto parcheggiate: non ci furono vittime o feriti solo perché accadde di notte. Nel 1990, avvalendosi di una legge per la costruzione di alberghi varata in occasione dei campionati mondiali di calcio, la proprietà dell’area iniziò all’improvviso la costruzione di un edificio di nove piani dall’enorme cubatura, in deroga a qualsiasi indice o regolamento. Soltanto il ricorso degli abitanti del quartiere, riuniti in comitato, riuscì ad impedirlo, rivelando che il terreno era stato inquinato per anni da solventi clorurati e mai bonificato. Fu una battaglia giudiziaria lunga e costosa per gli abitanti. L’area rimase in abbandono fino all’estate 2008 quando, con un improvviso blitz ferragostano, fu riaperto il cantiere, ad opera dell’impresa Maltauro, che in poche settimane fece un altro enorme scavo ed iniziò ad edificare le fondamenta di un mostruoso edificio. Di nuovo i residenti ricorsero a Tar e consiglio di Stato e riuscirono a bloccare la costruzione: nel corso del dibattimento emerse che gli uffici comunali avevano “smarrito” la pratica dell’inquinamento del terreno. Il Tribunale ordinò la demolizione di quanto costruito, affidando l’esecuzione al Comune, che però ha omesso di farla eseguire. L’ultimo capitolo è recentissimo: la proprietà ha presentato un nuovo progetto preliminare dall’enorme cubatura, rivendicando il diritto a costruire 3000 mq, la superficie dell’intera area, come se non ci fosse stato nel mezzo l’enorme cortile dove manovravano gli autoarticolati carichi di bobine di carta e dimenticando gli accordi sottoscritti quando furono costruiti i box per destinare a verde una porzione dell’area. Nel passaggio in Consiglio di Zona 1, in cui il Consiglio ha ribaltato il parere favorevole della Commissione edilizia, è emerso che gli uffici comunali hanno “smarrito” anche la pratica della demolizione. Purtroppo il parere del Consiglio di Zona non è vincolante e nel frattempo pare che il progetto sia stato invece approvato, inspiegabilmente, dalla Commissione paesaggio. Credo che questa vicenda meriti l’attenzione di ArcipelagoMilano: nelle pieghe della campagna elettorale la speculazione si insinua volentieri, sarebbe interessante capire dove trova sponda.

 

Scrive Andrea Vitali a proposito di rivoluzioni e interpreti – Divertente (anche se un po’ azzardato) il paragone fra “rivoluzione arancione” e primavere arabe. Che dire? C’è chi si è beccato Al-Sisi e chi la De Cesaris… (si parva licet componere magnis)

 

Scrive Adriana Grippiolo a Oreste Pivetta – Grazie Pivetta, bravo Pivetta! E con quella scrittura fluida che avrebbe incantato alcuni direttori con cui ho lavorato, ti assicuro che se scrivi … un poema lo compro con simpatia.

Scrive Gregorio Praderio a proposito minorità e autonomia – Mi è piaciuto il riferimento a Kant fatto da Giulia Mattace Raso: non basta l’intelligenza, servono anche decisione e coraggio per uscire dalla minorità e arrivare all’autonomia. Ma potrebbe ancora non bastare. Mi aiuterò con una metafora alpinistica. Non basta essere capaci e decisi per conquistare una vetta difficile: bisogna anche che ce ne siano le condizioni esterne (meteorologiche e organizzative). Saper aspettare il momento giusto è quello che spesso ha fatto la differenza fra gli alpinisti che tornano a casa e quelli che no. E a volte l’occasione giusta non arriva mai: basti pensare ai più forti alpinisti italiani della storia, Cassin e Bonatti, che non sono mai saliti su un 8.000 perché chi organizzava le spedizioni non li voleva (troppo bravi). E anche l’altro grande alpinista italiano (in realtà sudtirolese), Messner, ce l’ha fatta perché l’evoluzione tecnologica ha consentito spedizioni “leggere”, individuali; in tempi di grandi spedizioni ha sofferto anche lui (vedi Nanga Parbat). Fuor di metafora: non basta neanche la determinazione. Servono condizioni esterne e organizzative aperte (cosa che non sempre avviene).

 

Scrive Letizia Arcangeli a proposito delle colpe di Pisapia – Questo articolo è un’esibizione intellettualistica irritante e priva di qualsiasi utilità. Lo direi un tentativo di confondere le acque per smontare le sacrosante critiche all’operato demenziale di Pisapia.

Replica Giulia Mattace Raso – Mi sembrava di non aver lesinato critiche all’operato di Pisapia, attribuendogli atteggiamenti egotici e distruttivi (“Cronos?”). Ma reputo che ci sia stata una mancata assunzione di responsabilità da parte di tutti gli attori in gioco. Dove eravamo? Ad aspettare la pappa pronta?

 

Scrive Letizia Arcangeli a proposito di biciclette e pedoni – Chi scriverà regole che proteggano i pedoni dai ciclisti? Le poche piste ciclabili che incontro sul mio cammino sono sempre rigorosamente vuote, ma i marciapiedi, ahimé, no, sono pieni di ciclisti che vanno in tutti i sensi. e sui marciapiedi viaggiano anche ipovedenti, semi invalidi e così via, colti di sorpresa dallo sfrecciare di una bicicletta a un pelo da loro

Replica Stefano D’Onofrio La lettrice pone una serie di questioni importanti, che sottolineano, a mio modo di vedere, le stesse problematiche dell’articolo da una diversa angolatura. Bisogna condannare il ciclista che sfreccia sul marciapiede, che lo usa come se fosse un suo spazio, magari suonando il campanello o pretendendo spazio. Spazio che non è suo ma che è, invece, spazio prezioso per il pedone.

Spiace, invece, se lo stesso livore viene riservato a chi usa tempo temporaneamente la bicicletta sul marciapiede unicamente per proteggere se stesso, con il necessario rispetto e la giusta attenzione per quello spazio, muovendosi come un ospite, come fosse in una “riserva”, separata da quella strada dove ogni anno perdono la vita quasi 300 ciclisti. Un marciapiede che, a sua volta, è minacciato, in maniera ben più pericolosa, dalle stesse auto e da moto e motorini che lo usano per parcheggiare, per transitarvi, invadendo salite e discese, asfissiando gli alberi, togliendo spazio vitale per i pedoni che, forse ormai abituati, quasi non se ne accorgono. 

E invece mandano a quel paese il ciclista che transita al loro fianco, sgradito ospite in una guerra tra ultimi che manca il “bersaglio grosso”. Tutto questo non accade dove vi sono già piste ciclabili – a loro volta minacciate da auto e furgoni in sosta, scooter e motorini in transito, taxi e autobus che accostano, auto che svoltano – o dove, fuori d’Italia, le strade sono conformate in modo da ospitare le biciclette accanto alle auto, con riconoscimento e rispetto reciproco di spazi e regole. C’è una bellissima frase, che ha guidato il cambiamento ciclabile di una città come Amsterdam: “build it and they will come” (“costruisci, e loro arriveranno”). Che è un invito all’amministrazione a “governare” lo spazio che amministra, per cambiarlo in meglio.

 



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