17 febbraio 2016

MILANO SAPRÀ FARE DA SÉ NEL MONDO GLOBALIZZATO? A SPESE DI CHI?


Milano è candidata potenziale a fare da sé nel mondo globale dei mercati senza confini né padroni, salvo gli amministratori delegati delle multinazionali. Costola di stati superati dalla storia, darsi da sé regole idonee alle strategie proprie di ruolo e di mercato delle imprese-chiave presenti, valutate sull’indotto d’affari locale. Sogno di un’oligarchia coesa, selettivamente accogliente. Proiettata nel mondo, naturalmente a capo di un’area più vasta, magari discontinua ma dipendente dai suoi servizi e competenze. Un atout per i fantastiliardi del mondo.

05gario06FBIl modello in Europa è Londra, ma è peculiare. Capitale politica, governi e premier vi gravitano a servizio della finanza sua industria motrice, e a scapito delle altre industrie regionali britanniche e di quelle omologhe europee, specie tedesca. Regno del mattone grazie al forte mercato del lavoro alto dei servizi finanziari, non più di quelli legali, e basso della ristorazione, sempre a spese del resto del paese, dove il mattone è specularmente in caduta da anni, e degli stessi londinesi. «In quindici anni i prezzi immobiliari sono quadruplicati nella capitale britannica. I 24-35enni proprietari di casa sono diminuiti dal 58 al 40%» [Éric Albert, “Londres. Une génèration condamnée à la colocation”, Le Monde Éco&Entreprise, 20.01.2016, p. 2].

Capitale d’impero, ex ma mondiale e in relazione privilegiata col successore USA, Londra è unica in Europa, forse nel mondo, e ne trae profitto. Fin che dura. Una finanza autoreferenziale si traduce in redditi da lavoro insufficienti per vivere e in un indebitamento delle famiglie enorme, pur se meno visibile del nostro debito pubblico. «L’indebitamento delle famiglie è passato dal 118% dei redditi disponibili nel 2000 al 183% nel 2008» [Éric Albert, “Royame-Uni. Le démon de la dette”, Le Monde Éco&Entreprise, 15.01.2016, p. 2]. Ed è “il Regno Unito a rischio default per colpa delle famiglie che spendono ormai più di quel che possono permettersi. Anzi, molto di più se è vero che la cifra ammonta, solo per quest’anno, a un indebitamento pari a 40 miliardi di sterline: soldi spesi, ma che non hanno guadagnato. L’allarme, riportato dall’Independent, arriva dall’Office for Budget responsability, un think tank economico che analizza le casse dello Stato” [Anna Lombardi, “Allarme sui debiti del Regno Unito, rischio default delle famiglie”].

Anche il contesto è specifico, perché UK è geograficamente al margine dello stress che la guerra civile medio-orientale sta producendo sull’Europa continentale, e sull’UE, con le ondate di profughi e migranti economici che trovano in Grecia e Italia la frontiera, «una zona e non più una semplice linea. […] Per fare un esempio facilmente comprensibile, là dove l’esistenza di un confine è messa fortemente in rilievo da tariffe doganali che colpiscono esportazioni e importazioni, è normale che molta gente – al di qua e al di là della frontiera – si dedichi al contrabbando» [Owen Lattimore, La frontiera, Torino 1970, p. 406]. Tra Medio Oriente ed Europa il confine è fortemente in rilievo, là per guerra e povertà, qui per pace e ricchezza, e contrabbandare esseri umani dà enormi profitti illegali, come quelli delle multinazionali in fuga dal fisco attraverso confini fortemente in rilievo per regimi fiscali volutamente molto sperequati. E come i profitti del terrorismo, che passa confini fortemente in rilievo per scontri di civiltà inventati dopo la guerra fredda, in mancanza d’altro.

Anche il terrorismo è un business multinazionale, denunciato con conoscenza di causa dal giornale della City: «Da ultimo, e peggio, il Medio Oriente ci ricorda che la globalizzazione ha il suo lato buio. Che cosa sono Stato Islamico e al-Qaeda se non multinazionali dello jidaismo?» [“Beware of sandstorms”, The Economist, June 20th-26th 2015, p. 62]. Dove circolino i capitali del terrore non è noto, ma da sempre i capitali illegali si mimetizzano e riciclano dove maggiore è la circolazione dei capitali e tutto si mescola perché, come le frontiere, sono zone e non linee di confine. E neppure si sa dove sono i mercati dei beni archeologici venduti dallo Stato Islamico che distrugge siti e città, ma a ogni buon conto un esperto del settore, su Euronews, avvisa operatori e collezionisti che in nessun modo il loro commercio si giustifica come salvataggio di beni culturali.

Nel mondo globale le nuove città(ex)stato hanno un fattor comune «che i britannici conoscono bene: il liberalismo produce ineluttabilmente tecnocrazia, perché le norme sono il gendarme del mercato» [Arnaud Parmentier, “Catch anglais”, Le Monde, 04.02.2016, p. 24]. Se la burocrazia dipende pur sempre dal potere politico, la tecnocrazia si basa sulla formula TINA (There Is No Alternative), coniata appunto dal premier britannico Margaret Thatcher: «per ogni problema c’è una soluzione tecnica ottimale» e «ogni questione ha necessariamente una soluzione puramente tecnica, che basta individuare: non ci sono mai problemi di fondo, a maggior ragione politici», ma solo disfunzioni [Paul Jorion, “A Bruxelles, une bureaucratie libérale”, Le Monde Eco&Entreprise, 03.02.2016, p. 7]. Per eliminarle bastano gli Investor-State Dispute Settlement, che consentono a un’impresa di citare in giudizio uno Stato in giurisdizione privata. La sede più importante è la Banca Mondiale, con l’International Centre for the Settlement of Investment Disputes (ICSID).

«Gli investitori hanno usato il sistema non solo per fare causa e chiedere compensi per presunti espropri di terre e fabbriche, ma anche per una vasta gamma di misure governative, incluse le regolamentazioni ambientali e sociali, affermando che ledono i loro diritti. Le multinazionali hanno fatto causa per recuperare denaro già investito, ma anche per presunte perdite di profitto e ‘profitti attesi in futuro’. Le cause promosse contro gli Stati nell’ambito dell’ICSID sono oggi circa 500 – in aumento con la media di una nuova causa ogni settimana. Le somme concesse per danni sono così importanti che i fondi di investimento ne hanno preso buona nota: le cause promosse dalle imprese contro gli Stati sono ora considerate come attività in cui investire o da usare come leva per prestiti di milioni di dollari. Sempre più le imprese stanno usando la minaccia di azioni legali in ambito ICSID per fare pressione sui governi affinché non le ostacolino» [Claire Provost e Matt Kennard, “The obscure legal system that lets corporations sue countries”, The Guardian, 10.06.2015, p. 25].

Non sempre perdono gli stati, «tuttavia tutti, anche i suoi più ferventi sostenitori, lo riconoscono: l’arbitraggio ha gravi difetti. L’indipendenza degli arbitri, per esempio. “Da un affare all’altro, sono chiamati quasi sempre gli stessi, un piccolo oligopolio di esperti internazionali” dice uno specialista che preferisce l’anonimato, “per lo più avvocati. In quanto arbitri possono essere tentati di giudicare a favore delle parti che li hanno designati, per essere ancora scelti in un altro affare”». «“Nessun investimento importante si fa senza questo tipo di accordo. Per attirare gli investitori, gli Stati accettano l’arbitraggio privato”, precisa Thomas Clay, professore all’università di Versailles Saint-Quentin. “Così fu per l’insediamento Eurodisney a Marne-La-Vallée, quando il governo, che non aveva firmato l’accordo di trattato bilaterale di investimenti con gli Stati Uniti, fece adottare una legge ad hoc nell’agosto 1986, permettendo il ricorso all’arbitraggio nel caso specifico”» [Cécile Ducourtieux, «Ces tribunaux privés qui font peur», Le Monde Éco&Entreprise, 15.01.2015, p. 2].

Era la Francia gelosissima della sua sovranità anche economica, prima della crisi globale e all’alba della e-economy. Figuriamoci ora una città(ex)stato. Attualizzando l’apologo di Menenio Agrippa, è un organo ancora in funzione dopo la morte del sistema connettivo statale. Frutto di una morte cerebrale politica e di un sogno, quello però del presidente della Dow Chemical Carl A. Gerstacher, nel 1974: «Ho sognato a lungo di acquistare un’isola che non fosse di proprietà di alcuna nazione […] e di stabilire, sul suolo davvero neutrale di quest’isola, la sede centrale mondiale della Dow, esente da obblighi nei confronti di qualunque nazione e società. […] Saremmo persino in grado di ricompensare generosamente gli abitanti del luogo perché si trasferiscano altrove» [cit. in Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, 20142, p. 92].

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Giuseppe Gario

 



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