10 febbraio 2016

musica – SCIORTINO E IL NOVECENTO


SCIORTINO E IL NOVECENTO

Di Orazio Sciortino compositore e direttore d’orchestra ho scritto una nota un paio di mesi fa a proposito della sua opera lirica “La paura”, ma non lo avevo mai ascoltato come pianista. È stata una assai lieta sorpresa scoprirlo interprete raffinato in un programma di particolare intelligenza come quello che ha impaginato l’altra sera a Villa Necchi Campiglio per il ciclo Musica e Arte organizzato dalla Società del Quartetto nei musei privati milanesi.

musica05FBIl programma prevedeva musiche in massima parte italiane, dei primi anni del secolo scorso quando imperversava la famosa generazione dell’80 (Alfano, Casella, Malipiero, Pizzetti, Respighi) con una parte riservata a trascrizioni/traduzioni di musiche di altre epoche (Respighi e Busoni) e un’altra dedicata a due autori (Malipiero, appunto, e Debussy) che si confrontano con vigore all’interno dello stesso orizzonte musicale che Francesco Gala nella dotta introduzione ha individuato nel simbolismo; il tutto in una singolare simbiosi con l’architettura della Villa Necchi Campiglio disegnata, come si sa, da Piero Portaluppi all’inizio degli anni Trenta.

Di Ottorino Respighi Sciortino ha eseguito cinque movimenti tratti dalla prima (1917) e dalla terza (1931) Suite delle “libere trascrizioni” di Antiche danze e arie per liuto, scritte per diversi organici orchestrali e ritrascritte per pianoforte; un bel gioco di rinvii e anche una perfetta introduzione a una regina delle trascrizioni, a quel capolavoro che è la trascrizione per pianoforte (1897) della Ciaccona dalla Partita in re minore BWV 1004 di Bach, che Busoni chiama “traduzione”, che il famoso editore Breitkopf definisce “bearbeitet für Klavier” (modificata per pianoforte) e che l’editore Curci pubblica nel 1961 come “elaborazione concertistica” della IV Sonata (?). Che confusione. Ma non è un caso, perché lo spazio che esiste fra la semplice trasposizione da uno strumento a un altro, che sovente si vuole sia il più fedele possibile al testo originale, le reinterpretazioni ed elaborazioni più o meno libere di temi ben noti, fino alle fantasie sull’intero corpo di un’opera lirica come sono le “parafrasi” di Liszt, è tale da consentire ogni genere di intervento. E più l’intervento è libero, più ha la dignità della vera e propria composizione.

Il caso di della Ciaccona di Busoni è esemplare perché l’autore pur restando fedelissimo al testo di Bach – che, ricordo, è per violino solo e dunque con scarse possibilità polifoniche e armoniche – utilizza le dieci (e più) note che possono contemporaneamente essere prodotte dalle due mani sul pianoforte arricchendo armonicamente il testo originale e amplificandolo secondo quanto egli vi riconosce implicito e sotteso.

È noto che uno dei grandissimi interpreti di questa Ciaccona è stato in più occasioni – e dunque anche con diversi esiti – Arturo Benedetti Michelangeli. Il quale restava all’interno di una prassi esecutiva e di una “poetica” bachiana molto consolidata in quegli anni (i Cinquanta e i Sessanta) e tutt’ora molto praticata: pochissimo pedale (quasi a ricordare il suono del clavicembalo o al più quello del fortepiano), legati sì ma non troppo, dinamiche contenute e proibizione assoluta dei pianissimo e dei fortissimo. Sembrava, dopo di lui, che Bach non potesse suonarsi diversamente.

Invece è arrivato Sciortino che ha rivoluzionato questa prassi. La sua Ciaccona non è più o non è solo quella di Bach, “trascritta” o rivisitata, ma molto giustamente discende per via diretta da quella di Busoni. Parte dalla complessità dello spartito di Busoni per metterne in evidenza tutte le potenzialità sonore e timbriche e le fa come esplodere nella sala da concerto; il pathos diventa quasi teatrale, non c’è più il ricordo del violino originario e neppure le allusioni agli strumenti di quell’epoca, si rifà piuttosto alla trascrizione per orchestra di Casella del 1936. Sciortino usa il pedale in modo persino spregiudicato, all’esplicito scopo di ampliare il più possibile le sonorità e le complessità armoniche, e interpreta in modo letterale, addirittura enfatizzandole, le indicazioni di Busoni che scrive, ad esempio, “energico il ritmo” o “quasi tromboni” oppure “le seguenti 16 battute poco a poco sempre più crescendo ed animando il tempo”). Si può essere d’accordo o meno ma non si può negare la legittimità di siffatta interpretazione e soprattutto il fantastico esito, che rivela tutta la ricchezza nascosta non solo nella essenzialità bachiana ma anche nella immensa cultura musicale di Ferruccio Busoni.

Nella seconda parte tutto è un poco cambiato e bene ha fatto il pianista a spezzare il concerto con un breve commento al programma. I Preludi autunnali di Gian Francesco Malipiero, scritti nel 1914 e cioè all’inizio della Grande Guerra – al ritorno da Parigi dove aveva conosciuto Debussy, Casella, Stravinskij, D’Annunzio e dedicati a Ildebrando Pizzetti – sono dei deliziosi cammei. Lo stesso aggettivo autunnale esprime quel tanto di depressivo insito in questi brevi pezzi resi struggenti dall’interpretazione di Orazio Sciortino che, come ho ricordato, ha appena messo la tragedia della Grande Guerra al centro della sua opera “La paura”.

Infine Debussy: Pour le piano (fra il 1894 e il 1901) e L’isle joyeuse (del 1904) sono due brani molto celebri che – in quest’occasione – hanno dimostrato come la produzione musicale italiana all’inizio del Novecento, ancorché stentiamo a riconoscerlo, non abbia nulla da invidiare alla contemporanea produzione d’oltralpe. Anzi.

 

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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