3 febbraio 2016
THE HATEFUL EIGHT
di Quentin Tarantino [USA, 2015, 187’]
con: Samuel L., Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demiàn Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern
«Non badare alle apparenze», allerta il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) appena entrato al Minnie’s Haberdashery. Una tempesta di neve l’ha bloccato nel rifugio assieme con altri brutti ceffi, tutti diretti a Red Rock. Nessuno si fida di nessuno. Oppure, per dirla come Poirot in un libro di Agatha Christie: «è bene sospettare di tutti, finché non si riesce a dimostrare che sono innocenti». Succede in The Hateful Eight [USA, 2015, 187’] di Quentin Tarantino, e il regista lo fa succedere anche in sala; anzi, forse il monito di Ruth è rivolto proprio a noi spettatori per ricordarci come il cinema sia forte a giocare con l’inganno.
Da quel momento in poi, loro (e noi con loro) danzano sulla lama di un rasoio sulle note di L’ultima Diligenza di Red Rock, tema principale di tutta la colonna sonora composta ad hoc da Ennio Morricone. Il Maestro ha in parte utilizzato alcune musiche che compose per John Carpenter ai tempi di La Cosa [USA, 1982, ‘96]. I violini sono acuti, i bassi potenti. Il respiro (il loro e il nostro) è trattenuto dalla suspense, lo sguardo (il loro e il nostro) è indagatore e desideroso di scoprire chi sarà il primo killer e chi il primo cadavere.
Mentre le sequenze si succedono, teniamo gli occhi fissi su quella caffettiera avvelenata perché temiamo – e insieme speriamo – che prima o poi scoppierà la tragedia. Ci concentriamo lì, perché Tarantino ci ha detto di farlo: la voce del narratore incombe come un deus per dettare i tempi della visione, per governare un mondo che lui stesso ha creato. Restituisce quella sensazione di suspense che raccontò Alfred Hitchcock in una celebre “chiacchierata” con François Truffaut – Il cinema secondo Hitchcock (di François Truffaut, 1967) – spiegando come sia proprio la conoscenza dei fatti a far entrare lo spettatore in empatia con i personaggi; a tenerlo, appunto, “sospeso”.
Intanto, ci perdiamo nei dialoghi fitti, nei botta-e-risposta divertenti e irriverenti, nei monologhi strabordanti. Insomma, in un modo di far sceneggiatura che abbiamo imparato ad amare (od odiare) dai tempi di Le iene [1992], e che non può aver un aggettivo più esemplare di “tarantiniano”.
Ma in quella stanza Tarantino ci butta una nazione intera, anzi, una nazione ancora divisa dal conflitto razziale, una manciata di anni dopo la Guerra Civile. Oswaldo Mobray (Tim Roth) propone, infatti, una linea di confine immaginaria: di qui i nordisti, di là i sudisti. «Il più politico di tutti i miei film», l’ha definito il regista. Si parla di guerra, di schiavitù, di diritti e doveri dello Stato: «sai qual è l’unica differenza tra la Giustizia e la giustizia di frontiera?», domanda Oswaldo Mobray a John Ruth, «il boia, perché agisce con assenza di passione». Si parla di rapporti uomo-donna: Ruth sta per portare al patibolo la fuorilegge Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh, bravissima).
I dialoghi non surfano in maniera postmoderna come facevano in Pulp Fiction [1994] ma si infilano in profondità, fino alla carne. E quando la raggiungono – la carne – la fanno esplodere, squarciare, spappolare. E noi siamo lì, assieme con loro, colpiti dai rigurgiti di horror che riempiono lo schermo di rosso.
Abbiamo ascoltato il suggerimento iniziale di Ruth, «non badare alle apparenze», immedesimandoci e sospettando a uno a uno di tutti i personaggi, ma – ahimè – Poirot non avrà il suo innocente stavolta, i “dieci piccoli indiani” di Tarantino sono tutti, a loro modo, antieroi. Alla faccia di John Wayne.
Paolo Schipani
IN SALA: il film è proiettato al cinema Arcadia di Melzo nello speciale formato Ultra Panavision 70.
questa rubrica è a cura degli Anonimi Milanesi