19 gennaio 2016

PRIMARIE: MODELLO MILANO


L’8 gennaio il professor Pietro Paganini ci ha spiegato sul Corriere della Sera, da Roma, dove ha sede la sua università, di cosa dovrebbero occuparsi gli “aspiranti sindaco” di Milano. Ha posto il dilemma fra “costruire un modello nuovo di città” o “amministrare Milano come un buon condominio”. I milanesi ricordano che a Gabriele Albertini veniva appunto rimproverato di essere “un amministratore di condominio”, invece di guidare “Milano a diventare il modello che tutti vorranno replicare nel mondo”. Ma i milanesi sono schivi e rifuggono da queste palingenesi.

03morganti02FBHanno un buon ricordo di Albertini, forse proprio perché non pretendeva di imporre ai milanesi una sua visione del mondo, ma pensava di far funzionare bene una città in cui poi i suoi concittadini avrebbero deciso, coi loro investimenti, se farne una città della scienza e della ricerca o una città della finanza o dell’editoria o della moda o tutte queste cose insieme. Si cita “la borghesia che, più di due secoli fa, progettò la Milano contemporanea”: la borghesia, appunto. Che forse, come Pirelli nei pneumatici, Falck nell’acciaio, Borletti e poi Monzino nella grande distribuzione non avevano bisogno di sindaci visionari, perché andavano all’estero a studiare i modelli di sviluppo delle società americane o tedesche che prima di noi avevano affrontato gli stessi problemi.

Recentemente a proposito del “dopo Expo” Adriano De Maio, rettore per molti anni del Politecnico, ha suggerito di non guardare solo ai soliti modelli della Silicon Valley o dell’area di Boston, ma di studiare ad esempio come i coreani del Sud costruiscono la loro Daedeok Innopolis (la Città della Scienza) o l’Institute for Basic Science. Aggiungerei che forse il modello della Francia (antesignana del dirigismo reale) sembra aver fatto il suo tempo: ha un numero di dipendenti pubblici quasi doppio del nostro, un deficit che sfora da tempo i parametri UE e un debito che si avvicina percentualmente al nostro.

Amministrare bene vuol dire invece rendere l’area metropolitana che è la più importante d’Italia, sia come reddito, che come industria e ricerca e come finanza, attrattiva per gli investimenti, senza troppe difficoltà burocratiche per fondare un’impresa, per ottenere un finanziamento, una licenza, un’autorizzazione.

Per far questo non serve tanto un manager, ma una persona preparata a gestire una macchina amministrativa tenendola più snella possibile, sorvegliandone i bilanci in modo che non gravino troppo sulle spalle dei cittadini, rendendo conto dei risultati (accountability) in tempi ragionevoli (a due mesi dalla chiusura dell’Expo ancora non sappiamo in dettaglio come è andata), evitando di gestire in proprio imprese industriali, ma controllando solo l’applicazione dei rispettivi contratti di servizio.

Forse i milanesi non vogliono realmente “costruire un modello nuovo di città”, perché la amano così com’è e vorrebbero solo vederla migliorare, partecipando a questa avventura con le loro proposte che non sempre sono accolte con la necessaria attenzione: purtroppo ci sono stati numerosi esempi di disattenzione anche in questa legislatura.

Forse questo non permetterà loro di scalare le classifiche precedendo Zurigo in termini di globalizzazione, senza dimenticare che Milano è pur sempre fra le prime otto città al mondo nella localizzazione delle multinazionali del terziario (consulenza, uffici legali, assicurazioni, ecc.). Non è anche questo un segno di globalizzazione?

 

Franco Morganti

 



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