12 gennaio 2016

OPZIONE PER LA BALZANI


La visione che corre in questo momento, di Milano, è sostanzialmente statica. Senza consapevolezza dell’opera incompiuta, cioè della crisi, del vecchio che muore e del nuovo che stenta a nascere (a parte il nuovismo della Milano che sale). Non solo: è una visione che non emerge, o sale, dalle parole che si pronunciano, come fatto in sé; non si solleva sopra il profilo delle persone che, bene o male, sono nella gestione della cosa pubblica implicate. Ognuno, invece, si posiziona: statica la visione, conseguente il posizionamento.

05bono01FBQuale la strategia? Non dovrebbe essa, esprimere qualcosa di diverso, un altro da sé; non dovrebbe indurre a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, vista la vastità delle questioni inespresse? Non dovrebbero, forse, gli scali ferroviari, essere riconsiderati all’interno di quella strategia, una volta esplicitata, di là dalle valutazioni più o meno corrette, più o meno, all’oggi, modellisticamente offerte? Di là dagli scenari, che sono sempre utili, ma sono altra cosa rispetto al progetto, cioè alla politica, o parte di essa. Lo dico nell’insieme, senza trascurare, ad esempio gli ottimi contributi in questa sede di Giorgio Goggi e di Roberto Biscardini.

Le occasioni mancate dei più vecchi scali dell’epoca del De Finetti insegnano, ma non hanno scolari. E non si dica che la strategia è la Città metropolitana: essa non può essere neppure un discrimine, per la semplice ragione che non esiste, se non come tracimazione della città fuori dei suoi limiti, che va governata, insieme con gli storici municipi.  Esiste nei decreti e nelle leggi, non come “principio delle istorie”. Mentre da sempre esiste, irrisolta, la questione della Città Lombardia, della “città mondiale”. L’inaccettabile lentezza del Passante ferroviario, con le sue troppe fermate che lo rendono “tram in cantina”, e con il suo sbraccio ancora tropo breve, è la principale evidenza di tale irresolutezza. Ma, fin qui, sto dicendo una volta ancora cose che molti di noi hanno già più volte ripetuto.

Per tornare alle persone implicate nella gestione della cosa pubblica, tra quelle eleggibili oggi con il voto, mi pare che l’unica che non cerchi posizione, e parli del suo fare, e delle virtualità che il fare può aprire, sia quella Francesca Balzani sia io, come molti, poco di fatto conoscono.  Per cui, dal basso delle mie scarse cognizioni, sostengo – e aggiungo: senza riserve o subordinate – la Balzani. Ma la mia (personale) posizione è solo una parentesi in questa dissertazione, e la chiudo: anche se vedo che anch’io, qui, mi posiziono, o meglio prendo posizione, con certa speranza che la disponibilità a comprendere (il bilancio per opere e non per voci della Balzani), alla fine giunga a comprensione. E che la comprensione porti ampio dibattito per una grande strategia: per la quale occorre ancora conoscenza della recente storia-geografia; e occorre “fare il punto”. Ve ne sono i prodromi, e non ancora le categorie.

Tutti, invece, conoscono il Sala, il quale in realtà si posiziona progressivamente, e con prudenza, portandosi dietro il basso profilo di quel “pragmatismo” che non appartiene di fatto alla nostra cultura politecnica, alla cultura lombarda che ancora vive nelle pagine del Cattaneo.  Expo è stata un (indubbio) successo per quello che è stata: non per quello che doveva essere, cioè uno sguardo sul mondo; è stata piuttosto la fiera (a volte di paese) difesa del prodotto italiano, sia pure nel confronto, ma forse con troppo evidente presidio o patrocinio da parte di Coca Cola e di altre multinazionali.

Territorialmente quell’Expo orami vecchia, là, “fuori di mano” (nonostante l’accessibilità) a chi interessa, ora nel gioco delle relazioni metropolitane (interessi fondiari a parte)? Appartiene ormai al mondo dello spreco, non a quello delle nuove risorse. La sua area, per quanto ci riguarda, potrà ancora per anni, e – per dirla con vecchia matematica – senza nulla togliere alle variabili necessarie al sistema, restare l’indistinto gerbido nel liminare di funzioni storicamente periferiche (o, naturalmente un parco).  Lo potrà restare fino a che, alla fine, si asseconderà invece la vocazione dello Scalo Farini: cosa ben più importante.

Ma nel momento in cui il nuovo segue altre strade rispetto a quelle desiderate, occorre ampia visione o idea di città: che ancora deve prendere forma; e in questa transizione o passaggio, non so quanto possano, nel breve, avere utilità o concretarsi alcune “fughe in avanti”.  Tra queste ultime metterei lo stimolante (come sempre) e intelligente scritto di Giuseppe Longhi: “… sarebbe interessante far evolvere le primarie, da indicazione passiva di un candidato all’esplicitazione di idee propulsive on-line che i cittadini sono chiamati ad approvare, modificare, esplicitando il loro livello di coinvolgimento diretto”.  Longhi, a proposito degli scali ferroviari, richiama lo studio che egli stesso condusse, insieme con gli architetti Balzani e Imberti, nel lontano 1995. Anch’io ricordo quel lavoro, tra i tanti cui il Longhi si applicò, sempre con grandi capacità: e capacità soprattutto da scenarista, le quali avrebbero richiesto ben altra interlocuzione (di progetto) che non la tralignata declinazione romanesca (così come lui la definisce) dei responsabili dell’azienda ferroviaria. Si pensi poi a cosa sia diventata l’azienda delle cento stazioni, la prima delle quali è quella martoriata di Milano.

Ma detto ciò, un poco mi ha deluso la descrizione della riduzione progettuale che il Longhi tratteggia quale esito del proprio lavoro, e quasi fatale norma di vita: il viraggio dallo scenario inserito nella cultura europea del proprio studio al riduttivo progetto, alla misera politica degli interventi che ha ricondotto, poniamo, le straordinarie potenzialità del luogo della stazione di Certosa in un medio – normale embrione di ville nouvelle, sulle orme invece di una più vecchia e superata cultura urbanistica europea, che ha spesso trasformato i luoghi in “non luoghi”, o – fuori di ogni antropologia – in luoghi della speculazione avversa al corretto uso delle risorse urbane. Io sono per il primato del progetto. Forse per mestiere di architetto, forse perché il progetto responsabilizza, mentre lo scenario può rimbalzare.

E’ evidente che, in quel troppo consueto adattamento dello scenario al progetto, inteso come mera valorizzazione aziendalistica, vi sia stata una carenza di visione, di iniziativa politica e, in ultima analisi – lo dico oggettivamente e non soggettivamente – un arretramento del ruolo del tecnico rispetto alla dimensione della politica.

Per ritrovare un primo superamento di questa esiziale dicotomia, che dovrebbe invece essere dialettica identificazione, confido ancora una volta, tra le tante auspicabili virtù, nella sensibilità della Balzani, che credo sia potenzialmente capace di aggregare. Cominciamo da qui, per una vera e dispiegata connettività. Se Francesca Balzani diventerà sindaco della città di Milano, ciò sarà un primo segno.

E termino con una piccola, personale memoria, o “istorietta”, come si dice qui nel Senese dove mi trovo. Era per Milano un giorno di grande calura, e ancora non erano iniziate le primarie della precedente tornata amministrativa, quando entrai per bere qualcosa di fresco nel bar di Corso Magenta, in faccia al Teatro Litta, e notai tante belle persone, belle facce, che cominciavano ad affluire all’ingresso. Entrai e vidi che era una prima iniziativa del Pisapia. Presi, tra gli altri, la parola e dissi: egli sarà il nuovo sindaco di Milano e susciterà molte speranze. Molte di queste ultime sono rimaste tali, e sono ancora suscitabili. Inoltre il caldo è passato e fa quasi freddo, essendo l’inizio del nuovo anno: l’anno appunto della Balzani.

 

Cristoforo Bono

 

 

 



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