16 novembre 2009

LA DEMOCRAZIA INCOMPIUTA: UOMINI PREPOTENTI E DONNE INVISIBILI*


Basta guardare pochi dati per capire la dimensione del gender gap nel potere politico italiano. L’ 82% dei senatori, il 79% dei deputati e il 77% dei ministri sono uomini. La situazione è particolarmente sbilanciata in alcuni partiti (PdL e Lega 80%, UdC 92%, IdV 92%), ma anche nel PD gli uomini superano il 70%. Una situazione analoga si presenta nel parlamento europeo, dove l’Italia si colloca al quartultimo posto tra i 27 paesi membri, con il 78% di uomini. Che questa percentuale sia pressoché identica per i partiti di destra e di sinistra dimostra che l’esclusione delle donne non è questione di orientamento politico. Sessismo e misoginia non abitano solo a destra. Si tratta di un fenomeno generale che veicola un messaggio semplice: le donne non devono entrare in politica. O, come elegantemente diceva Pippo Gianni, deputato UdC, in una seduta parlamentare del 2005, le donne non devono “scassarci la minchia”.

Invece si! In Italia serve un antitrust della politica. Non è ammissibile che un paese formato da metà uomini e metà donne sia governato da un unico gruppo, non importa quale. E’ a dir poco sconcertante che ci si scandalizzi davanti a un tribunale islamico in cui la testimonianza della donna vale metà di quella di un uomo, ma si accetti come normale un parlamento in cui per ogni voce femminile ci sono quattro voci maschili.

Una democrazia moderna non può rinunciare alle donne

Esistono molti motivi per cui un paese democratico non può rinunciare al contributo delle donne. Ne citiamo cinque:

1) E’ una questione di giustizia. La costituzione (art. 3 e art. 51) sancisce

l’eguaglianza di genere nell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive. La sistematica esclusione delle donne dalle cariche politiche è anti costituzionale.

2) Le leggi proposte e approvate in parlamento riguardano donne e uomini in ugual misura. Anzi, alcuni temi su cui si esprime il parlamento sono di particolare e, a volte, esclusiva rilevanza per le donne. Quando si decide di ridurre il tempo pieno nelle scuole pubbliche, chi pagherà maggiormente le conseguenze? Quando si decide sulla fecondazione assistita, sullo stupro, sull’ aborto, quali sono le persone direttamente interessate? In una vera democrazia, quale logica può giustificare l’esclusione di uno o dell’altro gruppo dal potere legislativo? Per una logica analoga sembra ingiustificabile che la corte costituzionale, organo vitale in qualsiasi democrazia, sia composta dal 93% di uomini.

3) Le donne sono portatrici di una cultura diversa. Ricerche psicologiche e sociologiche dimostrano che, mediamente, le donne sono più propense a condividere valori democratici come l’uguaglianza, la responsabilità sociale, l’accoglienza, la protezione dell’ambiente e meno propense ad accettare una struttura sociale gerarchica in cui un gruppo domina su di un altro e in cui le minoranze non vengono rispettate (Caricati, 2007). Per esempio, recenti studi condotti in Italia dimostrano che le donne, rispetto agli uomini, sono meno sessiste (Glick et al., 2004; Manganelli Rattazzi, Volpato e Canova, 2008), hanno minori pregiudizi verso gli immigrati (Manganelli Rattazzi e Volpato, 2001), un atteggiamento più favorevole nei confronti della società multiculturale (Mancini, Ceresini e Davolo, 2007) e aspirano di più a una società in cui i diversi gruppi sociali abbiano pari dignità. In Italia, come in altri paesi europei, sono soprattutto le donne ad appoggiare misure contro qualsiasi forma di discriminazione (Eurobarometro, 2008). In altre parole, sono loro le portatrici dei valori democratici per eccellenza. E’ proprio per questo che le istituzioni e, in particolare, i partiti progressisti non possono fare a meno delle donne, a meno che non vogliano rinunciare proprio alla realizzazione dei valori che li distinguono.

4) L’agenda politica è incompleta senza le donne. Alcuni studi mostrano che, quando le donne diventano una presenza rilevante (più del 30%) nelle istituzioni, cambia anche l’agenda politica. Per citare solo due esempi, le ricerche di Lena Wängnerud (2000, per una rassegna vedi anche Wängnerud, 2009), condotte in Svezia, indicano che le parlamentari donne dedicano maggiore attenzione a questioni come l’uguaglianza di genere e le politiche sociali. Cambiamenti simili nell’agenda politica emergono anche dalle ricerche di Beaman, Duflo, Pande e Topalova (2007) condotte nell’India rurale dove all’aumento della presenza di donne nelle municipalità locali corrisponde l’aumento della spesa pubblica per servizi rilevanti per tutta la comunità, come le infrastrutture e gli impianti per l’acqua.

Con l’incremento della presenza femminile non cambia solo l’agenda politica, cambia anche la qualità delle soluzioni proposte. La ricerca sociale ha dimostrato che le idee migliori e più innovative nascono in ambienti eterogenei, caratterizzati da diversità (Florida, 2003). Come affermato anche nei rapporti del World Economic
Forum, solo usando il talento e la creatività di uomini e donne le società moderne sono in grado di affrontare con successo i molti problemi sociali, economici, ambientali e diplomatici. Non a caso, la diminuzione del gender gap è generalmente seguita da un aumento della competitività economica e del prodotto interno lordo (Global Gender Gap Report, 2008). Ovviamente, questi vantaggi si verificano soprattutto quando donne e uomini vengono scelti secondo seri criteri di merito, cosa che non sempre si realizza nella selezione del personale politico.

5) Infine, la presenza delle donne potrebbe dare un importante contributo per “fare pulizia” all’interno della scena politica italiana. Sotto il profilo etico le donne sono meno accomodanti degli uomini. E’ ben documentata la loro minore propensione alla delinquenza di qualsiasi natura, dai furti agli omicidi: solo una piccola parte dei reati commessi in Italia è imputabile a donne (Ministero degli Interni, 2006). Questo vale anche per molti crimini di tipo economico, come le truffe e le frodi informatiche, settori in cui solo il 22% dei reati sono compiuti da mani femminili. La situazione è più ambigua per la corruzione, settore in cui sono spesso coinvolte figure politiche. In questo caso non è chiaro se la minor partecipazione delle donne rifletta la loro superiorità morale o, più semplicemente, la mancanza di opportunità (Transparency International, 2009). Esiste comunque evidenza empirica che le donne sono, mediamente, meno tolleranti rispetto alla disonestà e a pratiche immorali negli affari (Franke et al., 1997).

Negli ultimi anni, la politica italiana ha conosciuto un degrado etico senza confronti nel mondo occidentale, a cominciare dallo sfruttamento sessuale delle donne. In Italia, ma non solo, gli scandali a sfondo sessuale coinvolgono quasi esclusivamente politici uomini, mentre le vittime sono prevalentemente donne. Anche quando esercitano il potere, in genere le donne non usano la propria posizione o i propri soldi per comprare sesso e non decidono le carriere altrui in base alla disponibilità a passare per il loro letto. Come i loro colleghi uomini, commettono altre scorrettezze, ma lo sfruttamento sessuale non fa parte della loro cultura. Ben venga, quindi, la presenza femminile in politica!

L’anti-trust della politica

Sulla base di tali considerazioni, proponiamo una norma anti-trust della politica tesa a limitare lo strapotere di un piccolo gruppo. Oggi gli uomini ultra-cinquantenni sono il 17% della popolazione italiana, ma costituiscono il 55% dei parlamentari; esiste quindi una concentrazione ingiustificata e anti-costituzionale del potere politico nelle mani di pochi. Di conseguenza, è necessaria una norma anti-trust. Ci sono leggi che tutelano la concorrenza sui mercati economici, leggi che vietano alle imprese di abusare di posizioni dominanti a danno del consumatore. La stessa logica deve valere in politica.

Quale regola può ristabilire l’equilibrio tra i generi? La regola più semplice,

applicabile nelle elezioni nazionali, locali ed europee, è che in ciascuna lista

elettorale venga inserita una donna ogni secondo posto. A livello europeo, questa richiesta è in linea con la European Women’s Lobby “50/50 Campaign for Democracy” basata sul criterio che donne e uomini, costituendo la metà della popolazione, debbano essere rappresentati in pari misura nelle istituzioni politiche. Non è complicato. È solo questione di logica.

Quelle che invece non servono sono dichiarazioni di principio destinate a rimanere disattese. Come quando il PD dichiara uguaglianza di genere nel suo codice etico per poi far eleggere una donna ogni tre uomini, come è successo alle recenti elezioni europee. Dichiarare il principio di parità nei programmi è inutile se non si traduce tale dichiarazione in regole chiare, applicabili e – fondamentale – osservate senza alcuna eccezione.

Imparare da altri paesi: quote legislative e quote volontarie di partito

Circa la metà dei paesi del mondo ha messo in atto qualche misura tesa al riequilibrio della rappresentanza. I modelli cui ispirarsi sono tanti. Già da tempo, nei paesi scandinavi, le donne rappresentano più del 40% dei parlamentari. In Svezia, più della metà dei ministri sono donne. Di recente molti paesi hanno cercato di seguire questo esempio, introducendo diversi tipi di misure. Esempi sono il Ruanda, dove dal 2008 le donne sono più della metà dei parlamentari, e la Spagna dove le donne costituiscono il 36% dei parlamentari e il 50% dei ministri. E’ interessante notare che tutti i paesi europei che sono riusciti in anni recenti a superare la soglia del 30% delle presenze femminili nella rappresentanza politica hanno raggiunto questo risultato attraverso l’introduzione di un sistema di quote. Krook (2007) ha passato in rassegna quattro scenari che favoriscono l’introduzione delle quote:

a) Un’ampia mobilitazione dell’elettorato femminile.

b) La presenza di élite politiche illuminate che intuiscono che le quote possono recare vantaggi, anche al fine di ottenere maggiori consensi. L’esempio tipico è quello dei Verdi che, in molti paesi, hanno introdotto al loro interno le quote, successivamente imitati da altri partiti.

c) Un contesto normativo che sottolinea il valore dell’uguaglianza (non presente al momento in Italia).

d) International sharing e contagio: a volte i paesi prendono esempio da altri paesi o si muovono sotto la spinta di istituzioni internazionali (come esempi vedi la UN convention for the elimination of all Forms of Discrimination against Women del 1979, la Bejing Platform for Action del 1995 e l’Handbook on National Machinery to promote Gender Equality and Action Plans del Council of Europe del 2007).

Quali modelli sono stati usati per conseguire la parità di genere in politica? Ci sono diverse possibilità, come dimostra un recente studio della Comunità Europea (Electoral gender quota systems and their implementation in Europe, 2008): si va dai lenti cambiamenti normativi (come quelli attuati in Finlandia e in Danimarca) all’introduzione delle quote.

Le quote prendono principalmente due forme: quote legislative e quote volontarie. Le quote legislative, introdotte, ad esempio, in Belgio e Spagna, hanno il grande vantaggio di essere valide per tutti i partiti; esse portano però a risultati positivi solo se accompagnate: (a) da indicazioni chiare sull’ordine in cui candidati e candidate devono essere posizionati nelle liste elettorali; (b) da sanzioni esplicite e rilevanti in caso di non rispetto della legge (per esempio, l’esclusione della lista dalle elezioni – piuttosto che una semplice sanzione finanziaria – per i partiti che presentano liste non equilibrate). Paesi che hanno introdotto un sistema di quote senza una regola che garantisse la presenza delle donne ai primi posti delle liste elettorali hanno ottenuto risultati deludenti (si vedano, ad esempio, le esperienze di Francia e Slovenia). Lo stesso vale per paesi in cui la sanzione per la mancata osservanza della regole è di tipo finanziario: spesso i grandi partiti preferiscono pagare la multa piuttosto che inserire candidate in posizioni favorite (Francia e Portogallo).

Un problema intrinseco delle quote legislative è però che difficilmente vengono approvato da un parlamento composto da una schiacciante maggioranza maschile.

L’altro modello, sperimentato in Svezia, Norvegia, Austria, Germania, e diffuso soprattutto tra i partiti di sinistra, è quello delle quote volontarie adottate da singoli partiti. Questo tipo di quota prevede che ciascun genere sia rappresentato nelle liste nella misura del 50% (Norvegia, Svezia), oppure che nessun genere sia rappresentato meno del 40% o più del 60% (Austria, Germania, Irlanda). Anche in questo caso, l’introduzione di quote ha prodotto gli effetti sperati solo quando la norma includeva, oltre alla percentuale di candidati maschi e femmine, anche una regola sull’ordine di uomini e donne nelle liste. Il sistema in assoluto più efficace è quello dello zipper, della cerniera, in cui ogni secondo posto delle liste elettorali è occupato da un dato genere. Almeno nel caso dei partiti grandi, questo sistema porta molto vicino ad una rappresentanza del 50:50.

Nessuno dei partiti italiani ha introdotto un simile sistema, limitandosi invece a inutili dichiarazioni di principio, ma rifiutando un sistema efficace di quote

*Per gentile concessione di MICROMEGA pubblichiamo la prima parte dell’articolo comparso sulla rivista con il titolo ” 50/50, l’antitrust della politica

Anne Maass – Angelica Mucchi Faina – Chiara Volpato



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