16 novembre 2009

SI PUO’ ESSERE CITTADINI SENZA FISSA DIMORA?


La politica urbanistica del Comune di Milano espressa nel PGT e portata avanti dall’assessore Masseroli ha una sua compiutezza e articolazione, che però ha il difetto di svilupparsi in una logica solo bidimensionale. In quel programma il territorio è limitato alla sua espressione topogafica, ossia a una mappa a due dimensioni, e il progetto stesso si sviluppa come un organigramma confinato tra i due assi cartesiani delle risorse e del fabbisogno teorico.

La terza dimensione, quella che conferirebbe forza e ricchezza alla politica del territorio inserendo valutazioni e obiettivi più complessi, ad esempio prendendo posizione sull’equilibrio insediativo tra città e campagna, sulla riduzione dei traffici, sulla sostenibilità, non emerge.

Ne viene cioè fuori un modello di sviluppo del territorio che si accontenta di una visione “milanocentrica” come passo risolutivo verso un futuro radioso, senza domandarsi se il millennio delle grandi città che si è appena concluso non ha dimostrato al contrario che ormai la concentrazione insediativa è un bene solo per il sistema parassitario delle rendite di posizione, mentre è ormai del tutto inutile al resto del sistema economico. Senza dar peso a conseguenze quali la congestione, che per essere controllata richiederebbe una governance che pochi sistemi politici riescono oggi a garantire: e il nostro non è tra questi.

Ma di tale insieme di proposte ce n’è una che in particolare mi colpisce, ed è l’ipotesi di ricorrere a insediamenti abitativi temporanei.

Questa ipotesi ci fa subito venire in mente le baracche dei terremotati o i container dei centri di accoglienza. Ma oggi si potrebbe certo fare di meglio, quindi cerchiamo di superare il pregiudizio: domandiamoci invece seriamente che senso ha questa proposta, al di fuori di situazioni di emergenza ambientale, per una città come Milano.

Intanto bisogna ammettere che l’idea di una città che grazie alla tecnologia mobile cresce e si trasforma in tempi rapidi e non secolari ha affascinato molte generazioni di architetti, da Buckminster Fuller agli Archigram.

Però non è un caso che non sia mai riuscita a produrre un modello abitativo decente. Neppure quando dopo le distruzioni di una guerra era l’unica soluzione a un problema abitativo gravissimo. Ad esempio persino il Veteran’s Emergency Housing Act in Inghilterra alla fine della seconda guerra mondiale fu un insuccesso.

Metter dimora in un luogo significa realizzare una relazione con un insieme di spazi, di funzioni e di servizi che debbono soddisfare un’esigenza prioritaria, che viene prima ancora della loro qualità: è l’esigenza di stabilità. Strade e reti di trasporto ma anche panchine, aiuole, bar, edicole, negozi dietro l’angolo sono almeno tanto importanti quanto le case stesse.

Chi ha studiato le favelas sa che ciò che consente la sopravvivenza al suo interno anche a chi ha redditi bassissimi è proprio lo sviluppo stabile di un tessuto fittissimo d’interessi, attività, relazioni (anche conflittuali) al suo interno. La costanza dell’ambiente fisico e sociale è il primo requisito di ogni società civile sana, che non può svilupparsi in un ambiente fisicamente precario.

Inoltre finalmente abbiamo scoperto che trasportare cose da un posto all’altro ha un costo sociale oltrechè economico non indifferente, e spostare un prefabbricato da un posto all’altro è una delle attività più diseconomiche che si possano immaginare, anche dal punto di vista energetico. Soprattutto perchè ogni insediamento richiede comunque la predisposizione di allacciamenti a impianti, infrastrutture, servizi permanenti che se non utilizzati sarebbero sprecati.

L’utopia neotecnica di Archigram non ha mai fatto i conti con il consumo di risorse che avrebbe implicato. Dunque se servono case, tanto vale costruirle permanenti, con tutto il corredo di servizi necessari a renderle effettive “dimore”.

E già l’obiettivo di costruire case a prezzi calmierati sembra un obiettivo auspicabile ma utopico, se fondato solo su una politica d’incentivi.

Nei casi di reale emergenza abitativa perchè invece non sostenere gruppi etnici o sociali che s’impegnino nella ristrutturazione di edifici abbandonati o sottoutilizzati, magari partendo da quelli già ora occupati precariamente, fornendo loro non soldi ma materiali, assistenza tecnica e know-how, per convertirli in abitazioni. Chi ci ha lavorato avrà il diritto di abitarci per un certo numero di anni.

Ma si può fare anche di meglio. La miopia immobiliarista ha riempito (e continua pervicacemente a riempire) le periferie milanesi di edifici per uffici vuoti, malgrado il declino della domanda per questa tipologia. Molti di questi palazzi non hanno speranza di recupero all’uso per il quale sono stati realizzati. La loro conversione in abitazioni invece è del tutto possibile, recuperando così il valore delle volumetrie costruite con un modesto costo aggiuntivo, che tra l’altro potrebbe essere mirato all’aumento della loro efficienza energetica. Questo sì che sarebbe un intervento socialmente utile, sostenibile e a impatto zero sul già troppo martoriato territorio urbano.

 

Giorgio Origlia

 

 



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