23 dicembre 2015

FICTION E REALTÀ. IL WEB E LA MANIPOLAZIONE GLOBALE


Milano ospita una gran parte dell’editoria italiana e prestigiose scuole di giornalismo. Immagino perciò sia di casa la delicatissima questione posta da Charles Seife, docente di giornalismo alla New York University. Oltre all’informazione oggi si manipola la stessa percezione della realtà, che si può scomporre e ricomporre a piacere. «Il mondo online sta trasformando la maniera in cui creiamo e manteniamo i legami sociali. Nel farlo, ridefinisce le nostre interazioni, altera la natura del discorso pubblico e ci spinge verso convinzioni sempre più estreme. E c’è tutta una guerra per garantirsi la capacità di influenzare la realtà, plasmare le vostre interazioni sociali, manipolare le vostre credenze e controllare il vostro comportamento. Ma per via di quel potere, dovete cercare di capire non solo come può essere usata l’informazione digitale, ma anche quali cattivi usi se ne possano fare. E una volta che imparate a riconoscere i segni, potete capire come (e perché) la gente sfrutti le proprietà dell’informazione digitale per cercare di alterare la vostra percezione della realtà. E poi, cosa altrettanto importante, potete imparare a individuare le manipolazioni digitali e quindi a neutralizzarle» [Le menzogne del web, Torino 2015, p. 14].

11gario45FB«Il pessimista si lamenta del vento cattivo, l’ottimista aspetta che cambi e il realista aggiusta le vele», così ho letto, a Milano. La manipolazione che tutti ci avvolge ci costringe ad aggiustare di continuo le vele. Per andare dove? Seife ci dice dove non possiamo andare, anzi tornare: «Un tempo eravamo ostaggi del nostro villaggio, e poi della rete telefonica. Oggi siamo interconnessi in modo tale che chiunque di noi può comunicare con miliardi di persone sul pianeta – il mondo è diventato un posto davvero piccolo» [ivi]. Siamo tutti presi nella rete.

La responsabilità risale alla minuscola Europa: «ha fondato la scienza, che ha trasformato la vita e moltiplicato la potenza di chi la possiede. Per sua natura però è trasmissibile; produce metodi e prescrizioni universali. Ciò che dà ad alcuni, possono acquisirlo tutti gli altri». Ecco perché «nella storia nulla è più stupido dell’antagonismo politico e economico europeo, in confronto all’unità e alla cooperazione europea in ambito scientifico». «Ciò porta fatalmente l’Europa a retrocedere al rango secondario che le assegnano le sue dimensioni e da cui l’avevano tirata fuori il lavoro e la capacità di dialogo delle sue menti. L’Europa non ha avuto una politica adeguata al suo pensiero». Scriveva così Paul Valery nel 1930 [citato in Marc Ferro, L’aveuglement. Une autre histoire de notre monde, Paris 2015, pp. 12-13].

Dopo la criminale seconda guerra mondiale gli fa eco nel 1948 lo storico tedesco Ludwig Dehio: il futuro della politica europea è nella ricerca non più dell’egemonia bensì dell’equilibrio in un mondo irresistibilmente unificato da scienza e tecnologia [Equilibrio o egemonia. Considerazioni sopra un problema fondamentale della storia politica moderna, in prima traduzione italiana da Morcelliana, 1954]. Nelle conclusioni, Dehio accenna al miracolo politico che l’unificazione del mondo possa essere pacifica. È il miracolo dell’Europa del mercato comune e poi dell’unione politica, messa ora duramente alla prova dalla (auto) manipolazione globale.

Nel caso, L’Europa manipola se stessa alzando barriere e muri per isolarsi dal mondo e al proprio interno, ma anche dal proprio passato. Se isolarsi dal mondo e all’interno è inutile nell’epoca della interconnessione globale, isolarsi dal proprio passato è pericoloso. Direttore di ricerca al CNRS ed esperto del Medio-Oriente, Pierre-Jean Luizard ci informa che «nelle immagini diffuse su siti islamisti e Twitter, si vedono jihadisti abbattere con un bulldozer un muro di sabbia, creando una pista poi percorsa da camion e vetture, mentre un insorto brandisce la bandiera nera dello stato islamico. La prima foto della serie è datata 10 giugno 2014 e porta il titolo “Abbattere la Frontiera Sykes-Picot”, con riferimento agli accordi di spartizione del Medio Oriente sottoscritti nel 1916 da Gran Bretagna e Francia alla fine della prima guerra mondiale. Questa cancellazione della frontiera tra Iraq e Siria, messa in scena a Yaaroubiya, è un momento fondatore» [La Piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’Histoire, Paris 2015, p. 39].

Oggi quegli accordi sono politicamente lontani, ma è quell’ordinamento regionale che minaccia di crollare «per esaurimento e le sue interne contraddizioni, ormai insostenibili. Oggi non è il califfato proclamato da Abou Bakr al-Bagdadi a minacciare lo stato iracheno. Né sono stati i combattenti dello Stato islamico ad avviare il processo di autodistruzione del regime di Bachar al-Assad, che trascina la Siria intera nel caos interminabile della sua caduta. Di fatto, lo Stato islamico è forte soltanto per le debolezze dei suoi avversari e prospera sulle rovine di istituzioni che crollano. È questo lungo processo di delegittimazione e decomposizione di stati la cui vita era largamente compromessa fin dall’origine, che ora bisogna studiare» [p. 58].

La politica come storia e studio sembra un marziano oggi, ma l’auspicabile sconfitta militare dello stato islamico «non risolverà alcunché, se non si valutano le cause del suo successo iniziale. Per le antiche potenze mandatarie è molto difficile farsi carico del loro passato coloniale». «La missione “civilizzatrice” dell’Europa ha fatto da copertura a appetiti coloniali illimitati. Questo rifiuto di farsi carico del passato spiega la difficoltà dei diplomatici occidentali a prevedere il futuro del Medio-Oriente». «Un lungo periodo storico finisce: non si rivedrà più il Medio Oriente che abbiamo conosciuto da circa un secolo. Una guerra lanciata senza prospettive politiche non è già perduta in anticipo? È la trappola tesa alle democrazie occidentali dallo stato islamico, che certo le minaccia mortalmente. Le lezioni della Storia devono perciò servire a combatterlo» [178].

È poi almeno altrettanto importante uscire dalla trappola dell’ideologia neoliberista esportata dagli USA, dove nel 2007 è esplosa la crisi finanziaria e poi economica diffusa nel mondo. L’Europa è divenuta grande con l’economia sociale di mercato, che ha nell’occupazione il fine e nel profitto un mezzo, in una prospettiva di lunga durata; non, al contrario, il fine del profitto per mezzo del lavoro a breve termine, con l’obsolescenza programmata venduta come innovazione. «Delirante. Se ci si riflette un poco, la reazione dei mercati alle misure annunciate dalla Banca Centrale Europea il 3 dicembre, è proprio isterica. Il presidente Mario Draghi annuncia il posticipo dell’acquisto dei debiti pubblici? Come bambini i mercati finanziari si sono rotolati per terra pestando i piedi: volevano di più, più presto, più grande! I mercati non anticipano nulla, non si prendono nemmeno la pena di analizzare gli indicatori macroeconomici o i risultati delle imprese. Come drogati reclamano beatamente la loro dose, si accontentano che i banchieri centrali aprano ancora un po’ più i rubinetti della liquidità. Ma ci sono drogati peggiori: gli Stati». [Marie Charrel, «Les Etats aussi sont drogués au “QE”», Le Monde Économie&Entreprise, 6-7/12/2015, p. 5].

Quegli stati che dovrebbero risolvere la crisi storica del Medio Oriente e quella economica, sociale e anzitutto politica dell’Europa. La droga della manipolazione e dell’irresponsabilità non è mai stata così diffusa e a buon mercato, ma porta noi europei in rovina. Siamo di fatto il principale obiettivo del terrore e del neoliberismo, soprattutto per la nostra debolezza politica. È l’Europa intera a essere presa di mira, grazie ai suoi madornali errori politici di ieri e oggi. Solo l’Europa unita può venirne fuori. Il resto è fiction, con gravi perdite reali di innocenti, in Europa e Medio-Oriente. E l’eclisse di Liberté Egalité Fraternité oltre che, nel nostro piccolo, di Milano e Lombardia motori d’Europa.

 

Giuseppe Gario

 

 



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