16 novembre 2009

RIFORMA UNIVERSITARIA. IL DISEGNO DI LEGGE GELMINI


Poco più di dieci anni or sono l’allora Ministro dell’Istruzione e dell’università, on. Berlinguer, introdusse un’innovativa riforma del sistema universitario. Ai corsi quadriennali – affiancati dai Diplomi – veniva sostituito un ciclo noto come 3+2, ossia un triennio “di base” più un biennio “specialistico”. L’obiettivo, encomiabile, era quello di aprire l’Università a un pubblico di studenti più ampio, il che è avvenuto. La riforma era una scatola che la corporazione dei docenti e i successivi governi avrebbero dovuto riempir. Non era un compito facile vi era un’ambiguità di fondo: il triennio doveva avere un carattere professionalizzante, come i precedenti diplomi, o culturalizzante, come richiedevano le nuove vendemmie di giovani assai poco acculturati, anche per effetto dell’allargamento della base sociale. È come se a una persona si dicesse che può scegliere tra un pullman o una station-wagon.

Negli anni che seguirono due fattori contribuirono a devitalizzare il progetto. I colpi più duri furono quelli della corporazione dei docenti. Questi non sono stati capaci di declinare la riforma a favore dell’utenza, ossia degli studenti, essendo più interessati ai loro stessi interessi. I governi successivi hanno dato sempre meno soldi per l’Università e soprattutto fatto interventi in retromarcia. Il Ministro Zecchino ridiede spazio alla parte universitaria, conservatrice; la Ministra Moratti in cinque anni di governo inconsistente ha rinviato, pasticciato e infine anche introdotto nel sistema universitario nuovi soggetti dequalificati (università fantasma come Reggio Calabria, o che vendono titoli per corrispondenza); da ultimo viene l’evanescente Mussi.

Con la Ministra Gelmini le cose cambiano in meglio, come mostra il disegno di legge governativo (di seguito DLG) presentato approvato dal governo il 28 ottobre scorso, testo piuttosto chiaro, ben costruito e politicamente intelligente Molte critiche gli sono state subito fatte, ma l’impressione è che, chi le ha avanzate o confonda Tremonti – che taglia i fondi – con la Gelmini, o non lo abbia letto attentamente il testo.

Il DLG pensa all’università come a un’organizzazione che deve funzionare secondo criteri di efficacia, efficienza e qualità, e offre degli strumenti mirati a quest’obiettivo. Pertanto la prima parte riguarda il governo dell’università, attribuendo un maggior potere ai Consigli di Amministrazione, nei quali introduce una sostanziale rappresentanza extrauniversitaria, un maggior potere al Direttore generale, e limitando il tempo del mandato dei rettori. Si può obiettare che mancano attualmente quei soggetti esterni all’università capaci di aiutarla a uscire dalla sua autoreferenzialità.

Certamente c’è da temere l’inserimento di politici politicanti, o d’interessi economici particolari e miopi. A questo proposito appare però interessante quanto già hanno fatto o stanno facendo alcune università statali milanesi, come il Politecnico e la Bicocca con l’istituzione di Fondazioni che hanno appunto la funzione di raccordo tra il mondo universitario e quello dell’economia. C’è una certa lungimiranza nella gestione universitaria milanese pubblica, per non parlare di quella privata. Milano è modello, assai più di Roma.

Una seconda indicazione interessante del DLG è la possibilità di fusioni o coordinamento tra più sedi universitarie. Sono necessarie aggregazioni e specializzazioni, non nuove piccole iniziative nei vari capoluoghi di provincia esistenti o nascenti, come avvenuto in Lombardia nell’ultimo ventennio, in testa il Politecnico. Si richiede una retromarcia e, soprattutto, la scelta di una vocazione per ogni singola sede.

Il DLG prevede la reintroduzione del criterio di valutazione dei risultati delle università sulla base dei risultati scientifici, un sistema di ripartizione delle risorse finanziarie che ne tenga conto, e un sistema di accreditamento delle università. È un concetto importante che può favorire una gerarchia di qualità.

Sono poi introdotte norme per modificare la carriera e i compensi del personale docente, legandole più di oggi alla valutazione dell’attività scientifica, facendo uscire l’università da una situazione in cui conta l’età e il concorso d’ingresso. Tuttavia non è sempre chiara la linea scelta dal DLG, che oscilla tra un puntiglioso intervento ministeriale e l’autonomia delle università, tra regole eguali per tutti e incentivi. Questo sarà un aspetto su cui daranno battaglia i sindacati.

Un altro aspetto interessante, per quanto timidamente avanzato, è l’istituzione di un Fondo speciale per favorire tramite borse di studio gli studenti più meritevoli, con un processo di selezione nazionale. Se questo fondo fosse decorosamente dotato di mezzi finanziari e mirato a promuovere la mobilità degli studenti migliori verso le eccellenze universitarie – la gerarchia delle qualità di cui si diceva sopra -, si comincerebbe a uscire dalla mediocrità oggi causata dalla omogeneizzazione della formazione delle singole università basata su un’offerta per lo studente italiano medio.

Infine il DLG vuole riformare il sistema dei concorsi secondo una logica molto accettabile. Vi dovrebbe essere un’abilitazione nazionale, un po’ come la vecchia libera docenza, che accrediterebbe la qualità del personale docente universitario. Spetterebbe poi alle singole università scegliere chi chiamare seguendo procedure standard di trasparenza. Se queste non saranno rispettate, il che è possibile, è anche probabile che il sistema di finanziamento delle università, sempre più legato al merito, finisca con il penalizzare le sedi che si dimostrino troppo interessate alle clientele.

La Gelmini non tocca il problema delle risorse dedicate alle università, essendo questo un compito delle leggi Finanziarie. Nel 2009, ma soprattutto nel 2010, le università risentiranno di una pesantissima carenza di fondi, che impone un’inusitata e pericolosa cura dimagrante in termini di docenza, di ricerca e di servizi. Parlare di riforma senza prevedere il ritorno a condizioni finanziarie più decorose non ha però molto senso.

Il futuro delle università italiane, e in particolar modo delle grandi università, come quelle milanesi, è molto legato al loro finanziamento, ma anche a quanto avverrà nel prossimo futuro in seguito al fatto che molti docenti usciranno per limiti di età e nuovi giovani potrebbero entrare. Le proposte contenute nel DLG a proposito della figura dei ricercatori sono sensate (contratti fino a sei anni), a condizione che il meccanismo di carriera successivo sia chiaro, stabile ed effettivamente legato al merito. Potrebbero crearsi le condizioni per una migliore università, soprattutto se la legge di riforma uscirà dal tritacarne parlamentare con un assetto non troppo depotenziato rispetto all’attuale DLG e magari anche migliorato. Ma forse è chiedere troppo.

Francesco Silva



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