16 dicembre 2015

SCALI FERROVIARI: IL BUCO NERO ALLA MILANESE


La vicenda degli scali ferroviari milanesi e della mancata ratifica del relativo Accordo di Programma è un buco nero nello spaziotempo della legislazione italiana che ha attratto al suo interno troppe questioni e troppi problemi. La conseguenza è che, al di fuori del mondo degli specialisti (gli urbanisti), l’opinione pubblica è chiamata a giudicare l’atteggiamento degli attori in campo in questi giorni e lo fa di pancia e non di testa. Diamo per scontato che il clima rovente di campagna elettorale ha determinato comportamenti, tutti legittimi, ma altrimenti inspiegabili: ricerca di visibilità, regolamento di conti, vecchie ruggini.

01editoriale34FBCosa c’è nel buco nero? La legge urbanistica e le norme che ne regolano l’applicazione, le trasformazioni delle vecchie Ferrovie dello Stato in una galassia di società di diritto privato, le leggi che regolano il funzionamento degli Enti Locali, i rapporti tra Milano e il Governo.

Parto dalle Ferrovie dello Stato. Del loro assetto attuale ne ho parlato in un mio precedente editoriale nel quale consideravo utile la sottoscrizione dell’Accordo di Programma non per la sua bontà ma come il risultato ottenibile, viste le condizioni di partenza: in particolare un avvio della trattativa viziata dall’impostazione data all’accordo varato dalla Giunta Moratti nel 2007 (squilibrato a favore delle Ferrovie) e anche dall’approvazione da parte della Giunta Pisapia del Piano di Governo del Territorio (PGT) nel maggio del 2012.

Va ricordato che quest’approvazione fu una sofferta scelta politica dell’attuale maggioranza perché si approvava un PGT che altro non era se non quello redatto da Masseroli (assessore all’urbanistica della Giunta Moratti) ma con l’accoglimento di tutte le osservazioni (non ancora dedotte ma già presentate) che ne modificavano il contenuto “politico” per avvicinarlo, per quanto possibile, ai nuovi orientamenti della maggioranza. Un PGT certamente da non approvare ma la sua mancata approvazione avrebbe offerto all’opposizione il destro per accusare la nuova Giunta di voler “fermare” Milano. Si volle evitare lo scoglio.

L’iter degli Accordi di Programma tra Comuni, Regioni ed enti terzi (Ferrovie in questo caso) è folle e tortuoso e, per chi ne ha curiosità, lo alleghiamo. In buona sostanza tutto o quasi avviene in una trattativa che coinvolge le Giunte degli enti territoriali ma non i relativi Consigli. Una sintesi della vicenda si trova sul sito del Comune e sulla conclusione della trattativa c’è una dichiarazione dell’assessore Balducci: pure un documento interessante.

L’unica occasione che hanno i consiglieri di manifestare il loro dissenso sta nel non ratificare l’Accordo di Programma che, essendo materia urbanistica, richiede un passaggio in Consiglio perché la materia urbanistica e il bilancio sono le sole prerogative esclusive del Consiglio Comunale. Questa condizione è il risultato di una demenziale legislazione sugli Enti Locali che ha privato il Consiglio comunale di tutti i suoi poteri, esclusi quelli citati, con la conseguenza di rendere i rapporti tra Giunta e Consiglio assolutamente squilibrati e così accade quel che è accaduto: l’irrigidimento di alcuni consiglieri meno inclini al nuovo corso del “centralismo democratico”.

Non mi addentro nel dettaglio dell’accordo e nella definizione delle quantità edificatorie stabilite. Altri ben più competenti di me l’hanno fatto e lo stanno facendo. Tengo, però, a sottolineare che questi contenuti volumetrici sono quelli che determinano il valore economico delle aree su due versanti: verso il mercato delle aree stesse da un lato e dall’altro come fonte di proventi per il Comune (oneri di urbanizzazione di legge e da convenzione), e che sono a titolo oneroso per il promotore. Finisce col determinarsi una sorta di alleanza invece che di contrasto, il tutto a danno del bene comune.

Gli oneri di urbanizzazione, di qualunque natura siano (di legge o per convenzione), sono una delle tragedie del nostro Paese, come lo sono più recentemente le compensazioni alle amministrazioni locali per gli svantaggi derivanti dalla presenza sul loro territorio di infrastrutture di interesse generale (autostrade, inceneritori e così via): sono il bancomat degli enti locali per chiudere i buchi di bilancio o per realizzare indispensabili opere che però più legittimamente dovrebbero essere a carico della fiscalità ordinaria.

Dunque è legittimo pensare che gli ottanta milioni dell’Accordo di Programma sugli scali a favore del Comune di Milano abbiano giocato un ruolo non indifferente nel voler chiudere la vicenda. Nell’Accordo sono anche previsti investimenti da parte delle Ferrovie per il miglioramento del nodo ferroviario di Milano.

E qui torniamo alla questione Ferrovie. Perché mai la città che già concorre al bilancio dello Stato con una quota di Pil più alta di altre, che per la sua operosità è considerata la locomotiva del Paese, dovrebbe accettare un accordo che la espropria della opportunità di gestire liberamente e senza vincoli il suo futuro urbanistico? Come si dice: “Abbiamo già dato”. Il miglioramento del nodo ferroviario di Milano ci è dovuto perché è nell’interesse generale del Paese prima ancora che della collettività milanese.

E per concludere veniamo ai rapporti tra Governo e Milano. Questa vicenda degli scali si è svolta come se in campo ci fossero un amministratore delegato di un’azienda privata e un assessore comunale: non era così. Qui in campo c’erano un Governo e un Comune, Milano. Forse Giuliano Pisapia avrebbe potuto andare una volta di più a Roma e mettere in chiaro quali fossero i termini della questione e a quale livello andava trattata.

Adesso quello che vediamo sono i titoli di coda di un brutto film neorealista sulla gestione dei beni pubblici in Italia. Un film che non vogliamo più vedere. Vogliamo sul set milanese un film che ci entusiasmi anche senza essere quello che farebbe Renzi: un Film Luce anni ‘40. Dipende da noi se vogliamo andare in scena: la parte la conosciamo.

 

Luca Beltrami Gadola

 

 

 

 

 



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