16 dicembre 2015

QUALE STRATEGIA PER LE PERIFERIE MILANESI?


Se dovessimo interpretare la visione delle periferie di chi governa da quanto programmato per gli scali ferroviari, non potremmo per il momento che constatare un approccio piuttosto cinico, che prevede di affidare questi luoghi, con una pacca sulla spalla, al destino già tracciato per loro dal darwinismo economico del mercato immobiliare e delle iniziative dei privati: alle ‘periferie periferiche’ di Rogoredo, San Cristoforo e Lambrate gli ecumenici spazi verdi e ‘housing sociale’, mentre alle più fortunate ‘periferie di pregio’ di Farini, Porta Romana e Porta Genova funzioni di rango superiore, secondo le loro cosiddette ‘vocazioni’ già presenti in luogo. Praticamente una città pianificata con il pilota automatico: “va dove ti porta il core business”.

04vescovi44FBAl di là della consueta retorica, talora un po’ pelosa, sulla genuinità e vitalità della periferia e sui suoi auspicabili rammendi, forte anche della mia esperienza quarantennale di residente in uno di questi quartieri mi permetto una lapalissiana constatazione circa la sua natura, che definirei, in negativo, innanzitutto come distanza da – o assenza di – un centro, intendendo quindi per centralità urbana un insieme fortemente attrattivo di funzioni, attività e spazi, in genere prevalentemente pubblici. Ovviamente la forza di attrazione di questo cuore-magnete urbano può agire su un ambito più o meno esteso, che spazia dal quartiere all’intera città metropolitana.

Parchi e giardini contribuiscono sicuramente alla qualità del vivere cittadino, ma difficilmente, come insegna anche l’esperienza dei PRU, al di sotto di una certa soglia dimensionale e privi di altre funzioni e relazioni possono assurgere a effettive centralità; Marco Romano lo esprime molto bene in un suo recente articolo sul Corriere della Sera del 13 novembre, quando osserva  che il verde pubblico manca “… proprio in quei quartieri più antichi dove sono addensati i residenti benestanti, senza proprio invidiare i prati del Gratosoglio”.

In altre parole, quasi matematicamente, periferia e centro si potrebbero altrimenti definire come il rapporto tra le probabilità che l’abitante di uno dei due luoghi debba o abbia piacere a frequentare periodicamente l’altro posto. Ricordo ancora, per esempio, quale dolorosa impresa fu per molti milanesi del centro, quasi quattordici anni fa, doversi avventurare obbligatoriamente fino alla Bicocca per assistere agli spettacoli della Scala al Teatro degli Arcimboldi.

Ed è proprio questo il punto: la rigenerazione delle periferie non può che passare per il riscatto del loro ruolo subalterno, anche sotto il profilo estetico e identitario, nei confronti dei luoghi del centro in favore di una equilibrata complementarietà, ottenibile innanzitutto fondando nuove centralità e dotandole di un adeguato livello di accessibilità e di urbanità. Se poi le grandi funzioni ottengono risultati modesti, come lamenta Pierluigi Panza sul Corriere della Sera in un articolo del 4 novembre, è perché, per riuscire ad agire a livello strutturale (ottenendo quello che in economia viene definito ‘traboccamento’), necessitano anche di un’attenta progettazione che le ponga a sistema tra loro e con la rete di spazi, attività e risorse – materiali e immateriali – del luogo che le ospita.

Il disegno urbano, come ha dimostrato anche la recente stagione del cosiddetto rinascimento urbano in Inghilterra, è uno strumento fondamentale per ottenere queste sinergie. È del resto la stessa amministrazione milanese – proprio quella che poi, schizofrenicamente, pianifica di estendere la periferia dormitorio negli ex scali ferroviari – a evidenziare nei suoi comunicati come la riqualificazione di Piazza Leonardo da Vinci a Città Studi offrirà “… uno spazio pubblico di qualità, più verde, più luminoso e più fruibile per residenti e studenti, luogo di diffusione artistica e culturale in cui sperimentare nuove forme di cooperazione tra città e università”. È utile ricordare, oltretutto, che fu proprio per innalzare il valore fondiario dei loro terreni a Lambrate che i fratelli Ingegnoli, cent’anni fa, regalarono quest’area alla città per costruirvi il nuovo Politecnico.

Occorrono pertanto una strategia e una visione di insieme per evitare che il desiderabile, ma sempre meno invocato, policentrismo urbano e metropolitano degeneri in conflitti e concorrenzialità, anche a causa delle modeste risorse oggi disponibili. La coperta già corta dei finanziamenti pubblici è resa anche più stretta dalla difficile replicabilità di certe soluzioni: il polo scientifico proposto per Expo, per esempio, come sottolineato anche da altri interventi su questa testata, drenerebbe in quest’area risorse già presenti o altrimenti sviluppabili altrove. Appare sotto questo aspetto paradossale, per quanto metodologicamente condivisibile, la raccomandazione di Vittorio Gregotti di integrare con un nuovo quartiere residenziale e polifunzionale il futuro polo di ricerca dell’Expo per ricreare un effetto urbano in quel luogo isolato e monofunzionale, quando una tale struttura avrebbe per esempio potuto trovare già da tempo tutti questi elementi – alta accessibilità compresa – nell’Ambito di Trasformazione Urbana di Porto di Mare alla periferia sud di Milano, contribuendo così alla sua rigenerazione funzionale e sociale.

Sono quindi del tutto condivisibili e benvenute le perplessità di coloro che, come Anita Sonego, l’altro giorno non hanno inteso votare l’accordo di programma sugli scali in assenza di quell’indispensabile ‘piano complessivo’ per la città, rivendicato anche da Sergio Brenna in un recente articolo. Un tale progetto, magari illuminato dalle migliore esperienze di altre città europee, dovrebbe innanzitutto porsi a mio avviso due obiettivi:

  1. identificare le funzioni ‘centralizzanti’ plausibili e complementari da promuovere e il modo più adatto per distribuirle – anche in rapporto al disegno dei luoghi e al livello di accessibilità – per ottenere le migliori esternalità nei quartieri di periferia. Per esempio ipotizzando la nuova Rai a Rogoredo, dove creare un polo dei media con Sky (anche se Luigi Gubitosi ha già affermato che solo in centro la Rai potrebbe servire degnamente la città …) o il Cerba o la facoltà di Agraria a Porto di Mare, per ricreare il margine e la porta verso il Parco Agricolo Sud, oppure il secondo stadio, inviso ai quartieri residenziali, nell’area dell’Expo assieme ad altre funzioni sportive e per il tempo libero di portata metropolitana. Le idee, sollecitate da dibattiti, concorsi e incentivi, sicuramente non mancherebbero e neppure i potenziali finanziatori (come dimostra la vicenda del Portello).
  2. pianificare le priorità e verificare l’equa ripartizione degli investimenti tra le diverse zone della città in rapporto alle necessità, in modo da evitare che alcune aree già floride assorbano ulteriori finanze pubbliche e private (come la ‘maggiore qualificazione’ di piazza della Scala o il ‘parco d’arte contemporanea’ nel verde di lusso del quartiere Tre Torri) ben prima e a discapito di altre molto più bisognose (Bovisa, via Padova, Quarto Oggiaro, ecc.).

Questi dunque dovrebbero essere i due pilastri di una strategia di sviluppo urbano, da attuare – ed è il terzo passaggio fondamentale – secondo una chiara e condivisa prospettiva temporale, perché chi è intenzionato a ristrutturare la propria casa non penserebbe mai di posare il nuovo parquet prima di aver riparato le perdite dal tetto … .

 

Francesco Vescovi

 



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