16 dicembre 2015

musica – LA GIOVANNA D’ARCO ALLA SCALA


LA GIOVANNA D’ARCO ALLA SCALA

Vorrei esprimere un pubblico ringraziamento a Riccardo Chailly per avere non solo eseguito ma anche imposto all’attenzione del pubblico, proponendola nella serata inaugurale della stagione scaligera, un’opera ingiustamente dimenticata di Verdi (almeno qui a Milano) e quasi unanimemente considerata “minore” e “giovanile” (è del 1845, Verdi la scrisse in quattro settimane quando aveva appena compiuto 31 anni). Dico subito che l’ho invece trovata di straordinaria bellezza e che a mio giudizio “minore” non è affatto; ritengo anzi che la musica, a prescindere dallo sgangherato libretto di Temistocle Solera (“un cumulo d’incongruenze e un’offesa continua al buon gusto artistico e alla verità storica”(1)) sia fra le più belle creazioni di Verdi (il quale, come è noto, giustamente l’amava moltissimo). Ricordo solo che trent’anni dopo la Giovanna d’Arco, quando Verdi scrive per la morte di Alessandro Manzoni quel grande capolavoro che è la Messa da Requiem, guarda caso recupera dalla sua “opera giovanile” – evidentemente da lui non dimenticata affatto – addirittura il tema per il Dies irae!

musica44FBDunque il problema è il libretto, o meglio la vicenda della Pulzella di Orléans che vi si racconta: una vicenda che nasce nella storia (siamo nel 1429, la guerra dei cent’anni), diventa leggenda e addirittura mito (sulla figura di Jeanne d’Arc, patrona della nazione, si fonda gran parte dell’identità francese), viene trasfigurata poeticamente in un dramma di Schiller (Die Jungfrau von Orleans, Lipsia 1801), da questo condensata per Verdi ad opera di uno scrittore/musicista trentenne ambizioso e scombinato (il Solera, appunto, nel 1845); successivamente Giovanna viene venerata dalla Chiesa Cattolica prima come Beata (1909) e poi come Santa (1920) e oggi ci viene proposta dalla Scala interamente reinterpretata come una adolescente borghesuccia dell’ottocento, squietata e invasata!

Il tutto sarebbe dunque già abbastanza complicato di suo, ci mancava solo che i due maturi registi (Moshe Leiser, belga del 1956, e Patrice Caurier, parigino del 1954, che fin dal 1982 vivono e lavorano solo in coppia) trattassero tutta la vicenda come un dramma di natura psichica intorno al tema delle turbe adolescenziali – l’ossessione religiosa, la verginità, la lussuria – cosicché non si capisce più nulla fra deliri e visioni oniriche, pezzi di storia medievale e patriottiche celebrazioni di stampo napoleonico!

Eppure, nonostante questo, la musica è meravigliosa, se ne resta totalmente rapiti. Cavatine e cabalette, romanze, duetti e trii, uno più bello dell’altro, si alternano al Coro costantemente presente a sostegno dell’intera opera (ma quanto è bravo Bruno Casoni!), fino alla meravigliosa Marcia Funebre, al concertato del terzo atto e al potente Finale. Ma non solo il Coro è stato straordinario, anche l’orchestra della Scala ha dimostrato che con Verdi e con Chailly – dunque giocando in tutti i sensi in casa – è una compagine di alta professionalità. Per non dire di Anna Netrebko e di Francesco Meli, soprano e tenore magnifici, che hanno cantato in modo sublime, con incredibile generosità, sfoggiando voci meravigliose e disegnando due personaggi di grande spessore umano.

Caso a parte è quello del terzo protagonista dell’opera (oltre a Giovanna e al Re Carlo che ne sono gli eroi positivi, il padre di lei Giacomo è l’antieroe pieno di contraddizioni) e cioè il baritono fiorentino Devid Cecconi che ha dovuto entrare in scena all’ultimo momento; ha sostituito il titolare Carlos Álvarez che nei giorni precedenti la prima ha tenuto tutto il teatro con il fiato sospeso a causa di una bronchite che non voleva risolversi, tanto che durante le ultime prove si era assistito a una sorta di karaoke con Álvarez che recitava sul palcoscenico e Cecconi che cantava la sua parte dietro le scene. Nonostante qualche comprensibilissima incertezza e fragilità iniziale se l’è cavata alla fine più che bene e ha meritato a pieno titolo il trionfo finale.

In fondo questa rappresentazione ha dimostrato – se ve ne fosse stato bisogno – come nel melodramma il libretto è sì importante, o meglio può essere anche importantissimo (come non pensare a Da Ponte!), ma non strettamente necessario alla definizione di un capolavoro musicale; e che persino una regia e delle scene insoddisfacenti (ricordate Die Soldaten?) riescono a penalizzare più di tanto la buona musica.

Si è infine detto delle tensioni e incomprensioni fra direttore d’orchestra e registi; ma se non ce lo avessero detto l’avremmo capito da soli. Come avrebbero potuto convivere la limpida e luminosa interpretazione musicale del duo Chailly-Casoni con la tenebrosa e contorta visione teatrale della coppia Leiser-Caurier? Quello che non possiamo tollerare è che sul palcoscenico della Scala volino insulti irripetibili per la loro trivialità. Siamo tutti con Chailly che ha difeso l’opera dalle solite volgari porno-provocazioni della regia e che ha reagito all’aggressione con l’eleganza del silenzio. Siamo molto meno con Pereira che potrebbe scegliere i registi delle opere con maggior prudenza e lungimiranza. Per fortuna che, alla fine, Musica vincet semper.

 

 

(1) Carlo Gatti, Giuseppe Verdi, volume I, Alpes, Milano 1931, pagina 243

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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