10 dicembre 2015

PRIMARIE A MILANO: UNA GRANDE ATTESA


Da Milano verso Roma è ormai una processione, anzi un pellegrinaggio. Tutti da Renzi, per le primarie di Milano, per intercedere, perorare, concordare, minacciare, mediare, chiedere il permesso, fissare le date. Ci va Pisapia con la Balzani, ci vanno Bussolati e Alfieri, ci va Sala, che pure dice che non ce n’è neanche bisogno, tanto i due s’intendono. E il caro leader non si nega, sta al gioco nel teatrino romano, dove si sbriciola il mito del modello Milano, e non solo lui intendiamoci, che ci sono anche le maschere di Fratoianni con Lupi e Cuperlo.

02ucciero43FBMa le primarie non erano la terra promessa dell’autonomia dal centro e dell’elettore dai vertici di partito? Non c’è qualcosa di storto in tutto questo? Di contraddittorio con il loro principio fondativo, o forse bisogna guardare meglio a questa contraddizione e ammettere che proprio l’affermazione della supremazia del cittadino elettore sull’organizzazione fa a pugni con la realtà della sinistra italiana, bipolare a fatica senza essere bipartitica, non più granitica ma non ancora abbastanza liquida?

Certo, è difficile negare che le primarie siano state una grande innovazione nella politica italiana, ma neppure si può nascondere che siano malate. Talmente che neppure ci si accorda sulle date, sulle modalità di candidatura e di iscrizione, facendo sorgere il sospetto che, come sempre, dietro ai conflitti sui regolamenti si nascondano, neanche tanto però, profondi conflitti politici, dove i dettagli delle procedure sono usati come armi contundenti.

Primarie grande innovazione malata, non si capisce però se di patologie senili o di acne giovanile, problemi di salute aggrovigliati attorno alle due principali valenze che le caratterizzano, come modalità di selezione della classe dirigente (i risultati), e come modalità di partecipazione alla vita politica (il procedimento). Sono passati dieci anni dalle “primarie di Prodi” e l’istituzione non si è ancora stabilizzata, anzi recenti esperienze inducono qualcuno a rimetterle in discussione. La questione di fondo, in ultima analisi, riguarda la modalità del loro esercizio, insomma le regole, strette come sono tra il principio restrittivo di rappresentanza e il principio estensivo di partecipazione.

Quest’ultima, era ed è il maggior valore aggiunto delle primarie: come alla fine dell’800 negli Stati Uniti, il decadimento della qualità etica della forma partito imporrebbe la maggior apertura possibile. Se il cittadino non si avvicina più all’organizzazione (Mafia Capitale di Roma 2015 come Il gangsterismo politico della New York di fine ‘800), e se questa lontananza ne accelera la degenerazione, allora ogni sforzo andrebbe messo per riavvicinarlo. Tutto giusto e tutto vero, ma la pratica recente non ci conforta molto: l’allargamento della platea dei partecipanti alle primarie, condotta con poche o nulla regole, ha portato a sua volta a danni molto gravi, compromettendo la bontà del processo partecipativo (mafia capitale). E d’altra parte, la “regola” senza “costume”, la norma codificata senza consenso sociale, non è in grado di garantire nulla, anzi in alcuni casi ha concorso a contraffare l’esito elettorale.

Certo Milano non è Roma, ma basta questo a garantire sonni tranquilli? E davvero è doveroso tenere sempre le primarie, con ogni tempo meteorologico – politico e per ogni competizione? Oppure, come si sente spesso in giro, ci si ricorre solo se non si trova un candidato unificante e quindi primarie à la carte: primarie sì a pranzo, primarie no alla sera, primarie ni di pomeriggio. Ma così si nega la stessa ragione d’essere della loro esistenza che non è un’ordalia longobarda, e neppure il giudice di ultima istanza, ma l’affermazione, senza se e senza ma, della prevalenza del cittadino elettore come soggetto decisore del processo di selezione del ceto politico dirigente. Ma alcuni insistono “le primarie non ce le ha ordinate il dottore”, ovvero le primarie si fanno se i partiti lo ritengono opportuno: le primarie come potere – diritto a sovranità limitata?

Così se Renzi, un tempo arcinemico dei caminetti vetero comunisti, si adatta a concederle solo quando capisce che il conflitto con Pisapia sarebbe inevitabile e disastroso, dall’altro lato Sel non ammette che un cittadino, pur chiamato Giuseppe Sala, vi possa partecipare alle elezioni avendo sottoscritto la Carta dei Valori. E lasciamo stare l’Expo Manager quando subordina la sua disponibilità a primarie dove si parli solo di Milano, condizione chiaramente inaccettabile politicamente e ingestibile praticamente.

Insomma, tuttora le primarie sono vagheggiate quando tornano utili per poi essere rimesse in discussione quando il proprio “particulare” non le ritrova più in sintonia. Ma riaffermato il loro carattere di principio politico innovativo rispetto alla prassi tradizionale della democrazia rappresentativa, si torna alle modalità con cui definire il perimetro del loro corpo elettorale.

Negli USA, sia pure nelle mille forme cui si presta l’eccentrico pragmatismo anglosassone, si è optato per strumenti come i “registri degli elettori”, o similari, metodo che riduce il numero dei partecipanti ma rinsalda il senso di comunità politica, tanto più essenziale se si ricorda che oltreoceano il partito non esiste come organizzazione ma solo come insieme tra elettori, eletti e un agglomerato instabile di realtà sociali, sindacali, culturali (dimenticate tutto l’apparato verticale europeo, dal segretario nazionale in giù).

Nel nostro paese, la cosa trova ostacoli sia nella tradizione partitica sia nel multipartitismo tuttora imperante, per quanto in declino. Fare le primarie del partito democratico americano non è cosa in discussione (si fanno e basta), nel nostro centrosinistra multipartitico devono essere preventivamente autorizzate dalle trattative tra I partiti che prima si accodano sul programma (per chi ci crede) e poi finalmente aprono le porte al cittadino elettore, ossia il vero deus ex machina del processo politico.

Pisapia ha cercato di bypassare la difficoltà con la cosiddetta Carta dei Valori, un singolare documento predisposto da suoi incaricati e sottoposto sia ai partiti, che ai candidati. Circa gli elettori, non si sa. Aldilà delle numerose perplessità sulla legittimità politica di un procedimento che solo l’autorevolezza democratica del Sindaco può far digerire, resta sul tavolo, nella sua oggettività, la contraddittorietà tra un istituto, le primarie, nato e cresciuto in contesti bipartitici e il nostro sistema che a fatica, e non sempre, riesce al massimo a definirsi bipolare.  Occorre anche ammettere però che forse questa era l’unica via per cercare di tenere unito un quadro politico sempre più centrifugo, o almeno per sottoporre eventuali candidature di stampo tecnocratico a un qualche criterio di legittimazione politico – popolare.

Fuor di metafora, se per questa strada baroccheggiante, si troverà il modo di convincere senza alcuna condizione al sacro rito delle primarie l’expo manager, allora un buon risultato sarà stato raggiunto, nel metodo se non nel merito. Poi, su tutto questo sarà il popolo delle primarie a decidere, ma non sarebbe un bello spettacolo vederlo prevalere per assenza di competitori, coartati da improvvisati caminetti a un provvidenziale ritiro indorato da belle promesse.

Forza Balzani allora? Diremmo di sì, se la sua presenza contribuirà anche solo a fare delle prossime primarie milanesi un vero confronto tra prospettive e persone, una competizione vera in cui dividersi (che cretinata la candidatura divisiva) come ci accadde per Pisapia e Boeri, e poi sostenere il vincitore.

 

Giuseppe Ucciero



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