10 dicembre 2015

UN’ALTRA BATTAGLIA PERDUTA PER L’ARCHITETTURA: DOPO-EXPO


All’inizio, nell’entusiasmo planetario, una grandiosa visione tematica e progettuale ha premiato l’Italia, permettendole di organizzare Expo 2015. Sempre quell’entusiasmo e quella visione hanno prodotto le condizioni, anche se tra mille difficoltà, per la riuscita della grande manifestazione. E in effetti, i processi di natura tecnico-normativo, economico-finanziario, politico-istituzionale innescatisi, e segnati, come spesso accade nel nostro paese, da limitanti ottiche contrattualistiche e clientelari, che dovevano portare al materializzarsi di un’idea e di una forma, hanno prodotto non pochi problemi e difficoltà gestionali e organizzative, snaturando in qualche modo la portata innovativa che l’idea iniziale possedeva.

10ricci43FBUn’idea, e una forma, vogliamo precisarlo, che restano gli elementi principe, con cui andare a risolvere i problemi urbani, e che sono strumenti indispensabili, per dare identità a enormi frammenti metropolitani. Uniche garanzie, inoltre, per poter pensare di governare immensi e complicatissimi processi di natura amministrativa, finanziaria e politica, cioè: è grazie ad una grande visione, grazie all’entusiasmo e al consenso da essa generati, che si risolvono tutti i problemi e i ritardi, che complicati iter gestionali e organizzativi possono comportare. Ci si riesce perche ci si crede. Se l’idea iniziale fosse stata un’altra, più tradizionale e meno innovativa, Expo 2015 a Milano non ci sarebbe stata.

E oggi cosa è? Qual è l’eredità di questo grande momento, che ha saputo destare l’attenzione planetaria? Questo è il grande tema politico e socio-culturale, nonché metropolitano, che agita molte coscienze, e le pagine di molte riviste. Questo è anche un problema, guarda caso, che riguarda l’intera eredità che la nostra cultura ci ha affidato, e che sembriamo incapaci di attualizzare e rivalutare come nostro segno identitario, e come memoria collettiva. Stiamo come figli di papa, che sperperano in pochi anni un patrimonio accumulato con tanto sacrificio. La grande visione si è spenta, le aspettative che ha suscitato si sono placate, e tutti noi siamo diventati, piacevolmente insensibili.

Scorrendo i molti articoli che riempiono giornali e riviste, non si trova una parola, anche da parte degli architetti, che riguardi il problema di cosa sarà quel luogo, proprio dal punto di vista della sua visione e significato generale, e della sua forma: unici elementi capaci di generare una forte identità civica, e un forte significato urbano, riverberando, sul sempre provvisorio, equilibrio metropolitano.

Sembra, anzi, che si sia innescato un processo al contrario, che ha come obbiettivo la produzione proprio dello sprawl, cioè, nel nostro caso, quell’immensa congerie di frammenti, determinato dallo sviluppo metropolitano a macchia d’olio, che caratterizza la “brianza” milanese fino alle montagne, e da tutti riconosciuto, come ciò che bisogna evitare.

Come spiegare questo paradosso, e la difficoltà del produrre un’idea forte, in cui forma e valori, coincidano, e attraverso cui riconoscersi?  Tutto questo si spiega, con l’affidare il dopo Expo – che poi rappresenta la vera eredità, dato che gli eventi, appunto, passano -, alla solita caterva di pratiche clientelari, che producono l’identità di un luogo, attraverso processi caratterizzati dalla contrattazione quantitativa. Sembra quasi che sia necessario levarsi, il prima possibile, da un impiccio, invece che considerarla un’occasione: siamo in ballo e dunque balliamo.

Il paradosso è chiaramente prodotto da questo approccio utilitaristico. Un’ottica che inquadra, anzi, che vorrebbe inquadrare culturalmente, le problematiche legate al dopo Expo dal punto di vista, sempre più retorico, dell’iterazione tra i sistemi, delle teorie del caos e della complessità, che tradotto nella reale consistenza del dibattito, significa, complessificazione della contrattazione polito-finanziaria tra pubblico e privato. Un approccio, poi, che tradotto sul corpo vivo della città ha come risultato palpabile dei masterplan configurati attraverso un’indistinta giustapposizione di “contenitori” (materializzazione quantitativa di quelle stesse contrattazioni), a cui successivamente, spetta all’architetto il compito di rivestirli e distribuirli.

La città di Milano ha definitivamente estromesso l’architettura dai processi che generano la sua forma, le sue funzioni, e la sua identità, che si producono sempre “prima”, attraverso metodi non certo multidisciplinari. Qualche accenno a fantomatici mix funzionali e a probabili cordate pubblico-privato, un po’ di verdolatria, la grande firma, e il gioco è fatto.

Perché se ciò che determinerà il futuro di quel luogo sono le strategie oggi in campo, attraversate da contraddizioni e paradossi, semplicemente per “trovare i soldi per farci qualche cosa, perché ormai il dado è tratto”, non serve neanche parlarne, e lasciare serenamente che le cose accadano.

 

Mario Ricci

 

 

 

 



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