10 dicembre 2015

musica – SCIORTINO E ŠOSTAKOVIČ


SCIORTINO E ŠOSTAKOVIČ

Devo ricredermi sulla centralità di Milano e fare qualche riflessione in più sulla Città Metropolitana. Se ne fa un gran parlare, in termini urbanistici, logistici, amministrativi, ambientali, molto meno in termini culturali. Ma la settimana appena trascorsa mi ha insegnato che abbiamo bisogno della Città Metropolitana anche e soprattutto in termini culturali, e a una scala assai maggiore di quella di cui oggi discutiamo. Mi sono bastate due serate, rispettivamente a Novara e a Locarno, per toccare con mano questa nuova dimensione.

musica43FBAl Teatro Coccia di Novara, un gioiellino poco conosciuto dai milanesi, giovedì 3 ho assistito alla prima esecuzione assoluta di un’opera lirica in un atto, appena scritta dal compositore (e noto pianista) Orazio Sciortino, trentunenne siracusano naturalizzato milanese, allievo di Fabio Vacchi al nostro Conservatorio. Non potevo essere più prevenuto: sapevo poco o nulla di lui e niente del tutto dell’argomento e degli esecutori, ho fatto cinquanta chilometri in un nebbione fittissimo che mi ha fatto arrivare á-bout-de-souffle, tutto cospirava per essere insofferente e intollerante. Eppure, ancora trafelato, appena raggiunta la mia poltrona e senza avere in mano un programma, mi sono subito sentito in una situazione perfettamente comprensibile e accattivante, rapito da una musica interessantissima e piena di pathos, magnificamente diretta da un direttore giovane a me ignoto, eseguita da una orchestra di pochi ma ottimi elementi con un cast molto professionale sul palcoscenico. Da restare allibiti.

Poco a poco ho scoperto che l’opera, intitolata “La paura”, è tratta da un noto racconto di Federico De Roberto – cui si è ispirato anche Ermanno Olmi per il suo “Torneranno i prati”, del quale film nulla sapeva l’autore del libretto Alberto Mattioli quando si accinse a scriverlo – e descrive il dramma di un manipolo di soldati che in totale unità di tempo (una notte del 1917) e di luogo (una piazzola militare in montagna), per la totale insensatezza della guerra vengono uccisi uno dopo l’altro dal solito cecchino. La musica è meravigliosa; senza nostalgie neoclassiche o neoromantiche, sposando appieno la modernità, riesce a rendere attuale lo struggimento e i sentimenti di allora e a trasformare la vicenda in archetipo dell’”inutile massacro” che la guerra da sempre rappresenta. Più attuale di così … .

Inutile dire che il bravissimo direttore era lui, l’autore, un musicista a tutto tondo che si cimentava per la prima volta sul podio forte di una cultura musicale che sopperiva pienamente alla mancanza di tecnica direttoriale; molto sorretto, va detto, dall’orchestra “Talenti Musicali” che la Fondazione CRT ha promosso una decina di anni fa mettendo insieme i frutti migliori dei conservatori piemontesi e valdostani. È stato molto bravo – benché la parte vocale dell’opera, come sempre di questi tempi, sia quella meno riuscita (la forma del “canto” o del “parlar cantando” è stata fondamentalmente scippata alla musica lirica dai cantautori) – anche il tenore italo/macedone Blagoj Nacoscki, vero protagonista dell’opera nei panni del comandante dell’avamposto militare. Indimenticabili sia il coro (chissà se ispirato dall’origine greco-siracusana dell’autore) dei soldati che commentano la tragedia di quelle morti prive di compianto, sia il lungo e commovente assolo del violoncello che descrive la sofferenza e la solitudine del soldato che sa di andare a morire.

Una sorprendente riconciliazione con la musica contemporanea, dunque, e la palpabile sensazione che la musica “colta” – e con essa l’opera lirica – abbiano ancora un futuro importante e interessante. Basta concentrarsi meno sui problemi della tecnica di scrittura e sulla innovazione del linguaggio musicale e dedicarsi di più – con spontaneità, immediatezza, e persino con naturale intimità – alle ragioni profonde e proprie della musica.

Due giorni dopo rieccoci nella nebbia, questa volta per andare a Locarno nella “Sala del Palazzo della Corporazione Borghese” (sic) dove Saskia e Rocco Filippini – violino e violoncello, in trio con Bruno Canino al pianoforte – hanno voluto onorare con un concerto il loro padre pittore Felice Filippini (1917-1988) di cui, in quello stesso giorno e in una sala poco distante, si inaugurava un’importante mostra antologica.

In un altro concerto indimenticabile è stato eseguito il poco noto Trio numero 2 in mi minore opera 67 di Dmitrij Šostakovič, scritto nel 1944 e dunque in uno dei momenti più complessi e interessanti della vita del musicista russo. A parte la bravura degli interpreti, sicuramente aiutati dalla emozione del ritrovarsi insieme in una così particolare circostanza, questo Trio è una delle opere più poetiche del novecento e contribuisce a chiarire (o a complicare?) il mistero di quegli anni di guerra, di dittature, di violenze e di dolore, in cui nella devastata Europa occidentale si producevano ben pochi capolavori mentre in Russia – in situazioni non meno drammatiche – sia Šostakovič che Prokof’ev scrivevano le loro opere più importanti (il primo nel 1942 aveva scritto la Leningrado, cioè la sua famosa Settima Sinfonia, mentre il secondo proprio nel 1944 scriveva la celeberrima Quinta Sinfonia, opera 100, e poco dopo le tre “Sonate di guerra” per pianoforte!).

In Italia, come ha scritto Francesco Attardi in un suo recente programma di sala per laVerdi, la conoscenza di questi autori è un fatto abbastanza recente: “la nostra intellighenzia musicale degli anni sessanta fino agli ottanta, devota alla scuola di Darmstadt e ai suoi derivati, non ammetteva che un compositore potesse scrivere in maniera tonale o modale in pieno Novecento e soprattutto componesse sinfonie che rispecchiavano i canoni formali classici. E in un paradosso tutto italiano, mentre i critici musicali sovietici condannavano spietatamente il linguaggio atonale e dodecafonico, i loro omologhi italiani votati alla musica seriale non ammettevano neanche un bicordo di terza in quanto consonante”. Questa è stata la tragedia della nostra musica contemporanea.

Ed è per questa ragione che oggi, mentre ci godiamo finalmente i capolavori della Russia del Novecento, dobbiamo essere profondamente grati ai Vacchi e agli Sciortino che riconciliano presente e passato e, così facendo, ci offrono speranze e fiducia nel futuro.

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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