25 novembre 2015

musica – BIGNAMINI FRA BEETHOVEN E BRAHMS


 

BIGNAMINI FRA BEETHOVEN E BRAHMS

Mi ha sorpreso l’ultimo concerto ascoltato all’Auditorium, diretto da Jader Bignamini, che accostava il Concerto per Violino e orchestra opera 61 di Beethoven alla Seconda Sinfonia di Brahms opera 73: due capolavori del sinfonismo tedesco dell’ottocento, entrambi nella tonalità solare del re maggiore, il primo dell’inizio del secolo (1806), il secondo a secolo molto avanzato (siamo già nel 1877). Dico subito che la prestazione del violinista Yossif Ivanov, belga nonostante il nome e ai più sconosciuto ventinovenne, è stata ottima: oltre a eccellere nel meraviglioso concerto beethoveniano si è dimostrato particolarmente valoroso nel bis, eseguendo una assai difficile e affascinante Ballata di Eugène Ysaÿe.

musica41FBVorrei però dire del direttore Jader Bignamini – che come si sa esce dalle fila dell’Orchestra Verdi e che ha tutte le qualità e i titoli per diventarne il direttore stabile – il quale anche in questa occasione ha dimostrato un grandissimo talento e una capacità di tenere insieme l’orchestra – e in particolare questa, composta da suoi ex colleghi – come pochi altri sanno fare. Ho scritto diverse volte di lui, fin dal suo esordio con dei magnifici Quadri di un’esposizione di Musorgskij, tessendone le lodi; sono anche rimasto letteralmente incantato dall’Andrea Chénier, che eseguì in forma di concerto nel 2012, da una recente Messa da Requiem verdiana, da uno splendido concerto di musiche scandinave (di Grieg, Sibelius, Nielsen) e da una indimenticabile Quinta Sinfonia di Čajkowskij. Ho anche criticato alcune sue interpretazioni, come il Concerto in numero 5 in mi bemolle maggiore di Beethoven – l’Imperatore – eseguito con Davide Cabassi al pianoforte. E così ora sono rimasto perplesso ascoltando il Concerto per violino. Come si spiegano queste contraddizioni e questa discontinuità?

Prima del concerto Bignamini ha avuto la bontà di concedermi una lunga chiacchierata volta a conoscere la formazione e il percorso del musicista e ad afferrare il carattere e il temperamento dell’uomo. Confesso di essere rimasto affascinato sia dal musicista che dalla persona. Non ha ancora quarant’anni, nasce, cresce e vive tutt’ora con una moglie e due figli in un paese vicino a Crema, facendo il pendolare con Milano. Con grande freschezza e con una punta di orgoglio racconta come è iniziato il suo approccio alla musica: ha diretto, fin da ragazzo, la banda del paese (e i suoi giovanissimi figli ora ne fanno parte!). Un’esperienza fondamentale, dice, perché  attraverso di essa ha capito come direttore e strumentisti siano una cosa sola.

Poi entra alla Verdi nel ruolo del clarinetto piccolo senza tuttavia perdere la voglia di prendere in mano la bacchetta; inizia così a dirigere l’orchestra amatoriale dell’Auditorium sviluppandone sensibilmente l’organico (chiamando anche gli amici della banda!). Poi, quando Chailly è direttore stabile dell’orchestra professionale, ne diventa l’assistente e si impadronisce dei ferri del mestiere. Un’occasione particolare lo fa salire sul podio, l’orchestra lo accoglie con entusiasmo, l’appoggia, e lui può finalmente realizzare il sogno della sua giovinezza e soprattutto dimostrare a se stesso e agli altri le sue qualità.

È sostanzialmente un autodidatta – lui stesso, con grande semplicità, si definisce così – e ha una vita totalmente immersa nella musica. Il suo gesto è naturale, sciolto, sicuro, elegante; e credo sia anche aiutato da una memoria incredibile (dirige quasi tutto senza leggìo e senza dimenticare un attacco: “lo trovo fondamentale, dice, perché così riesco a guardare i musicisti in viso e a trasmetter loro, non solo con il gesto ma anche con lo sguardo, le mie intenzioni”). Tutte le sue posture, ma soprattutto la mimica facciale e lo sguardo rivolto a ogni professore dell’orchestra, raccontano la musica che ha in testa e che vuole. E l’orchestra lo sente come parte di sé, senza alcuna estraneità, un compagno di lavoro, ognuno nel proprio ruolo.

Credo di aver carpito il segreto delle contraddizioni che ho rilevato: ammesso e non concesso che il mio giudizio di semplice “ascoltatore” (quante volte l’ho ripetuto!) sia attendibile, penso che quando Jader Bignamini è totalmente libero di interpretare la partitura così come la sente, e non deve confrontarsi con un solista, riesca a immedesimarsi appieno nell’opera e a esprimere coerentemente l’idea che ne ha. Quando invece deve “misurarsi” con un altro musicista, seguirlo, non contraddirlo, trovare l’intesa, insomma quando la sua libertà è limitata, lo “spirito animale” che è in lui (nel significato più dantesco che keynesiano!) si fiacca e fatica ad esprimersi.

È così che l’altra sera il Concerto di Beethoven non ha funzionato benissimo, si sentiva lo sforzo di trovare un compromesso fra lui e Ivanov (e in questi casi, se non c’è una grande empatia e se non si creano forti sinergie, il compromesso è sempre al ribasso) e probabilmente per la stessa ragione non funzionò l’intesa con Cabassi nell’Imperatore (scrissi allora che “si percepivano fastidiosamente due diverse interpretazioni, due diversi fraseggi. La conclusione è stata un’esecuzione scolastica, per nulla convincente, una lettura sostanzialmente noiosa e insignificante”); affinché un concerto per strumento solista e orchestra funzioni bene bisogna che direttore e solista abbiano avuto il tempo di lavorare molto insieme e che ciascuno dei due sappia sottomettersi all’altro senza perdere la propria ispirazione. L’istinto in questo caso non aiuta molto. Credo che Bignamini sia così amabile e generoso – direi quasi cavalleresco – da sacrificare istintivamente l’orchestra per non entrare in competizione con il solista. (Ma la competizione è parte costitutiva del concerto se, come insegnava Giulio Confalonieri, una delle origini più probabili della parola è il latino cum certamen).

L’istinto – o lo “spirito animale” – di Bignamini è invece emerso con grande potenza ed efficacia nella Seconda Sinfonia di Brahms, in una partitura cioè estremamente complessa e difficile, sia per il direttore che per i professori d’orchestra, in cui ha navigato con una chiarezza di idee e una sensibilità straordinarie. Non c’è stato tema (e Brahms è di una prodigalità inaudita nell’invenzione tematica) di cui non abbia saputo dispiegare, esprimere e approfondire tutto quanto vi è contenuto e celato. Un enorme piacere ascoltarlo.

Di questa preziosa esecuzione viene spontaneo ripetere il giudizio che ne diede il giornale della anseatica città natale di Brahms, Amburgo, allorché – esattamente nove mesi dopo la prima viennese, quando la Sinfonia aveva già fatto il giro dei teatri tedeschi e olandesi e raccolto ovunque, con l’eccezione di Lipsia, grandissimo successo – fu replicata sotto la direzione del suo autore: “la grandezza della composizione e il rigore della sua esecuzione hanno portato il pubblico ad un vero entusiasmo”. Anche all’Auditorium milanese una grande emozione ha scosso sia il pubblico che l’orchestra di cui era visibile l’impegno, la partecipazione e infine la soddisfazione.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 

 



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