17 novembre 2015

“CONTINUITÀ”. DURA MINGA, NON PUÒ DURARE


Ogni qualche anno incontro una vecchia compagna del liceo che mi saluta al grido di ”non sei per nulla cambiato”; ora poiché non mi ricordo come un sedicenne obeso, calvo e rugoso mi domando sempre perché mi prenda per i fondelli e tendo ad adontarmi, senonché poi mi do la spiegazione: “mente perché vuole rassicurare se stessa” e subentra in me un moto di autentica solidarietà e comprensione.

02marossi40FBStesso moto che mi prende quando sento i politici del centro sinistra parlare della continuità tra Pisapia e Sala. Nessun milanese dotato di buon senso può sostenere che candidare Sala vuol dire dare continuità alla giunta Pisapia, a meno che non si intenda per continuità l’impegno a pulire le strade e far funzionare i trasporti, ovvietà comuni a tutti i candidati dai tempi di Decimo Giunio Bruto; ma se per continuità si intende anche un pathos, un’illusione, un clima, una visione allora questi politici mentono a noi e a se stessi.

Al contrario questa candidatura è la chiusura di una parentesi e il ritorno dei tecnici centristi, come in fondo era Albertini, al governo della città. Indipendentemente dalle sigle politiche che sosterranno il prossimo candidato e da quelle che parteciperanno alle primarie anche questa volta come nel 2011 il candidato è il mezzo e il messaggio e Sala (malgré soi?) impersona il riallineamento di Milano al quadro nazionale.

Sarebbero bastati l’ex sindaco Albertini (da tempo governativo, prima come antagonista di Maroni poi come capolista per Monti e infine come capolista alle europee per Alfano) che con una certa dignità passa attraverso Passera per apprezzare Sala (i due turni servono anche a questo) e l’ex ministro Lupi entrambi rappresentanti di quell’Area Popolare, renziana di complemento, che tanto lontana è dalla rivoluzione arancione del 2011 a dare il segno del cambiamento, ma con la zampata del vecchio professionista e la cattiveria vendicativa del trombato è toccato a Formigoni gridare il re è nudo e dichiararsi potenzialmente a favore di Sala.

Si va sciogliendo così un equivoco di fondo della sinistra milanese e cioè quello di credere che Renzi sia un fenomeno passeggero e che si tornerà prima o poi al sistema dei partiti con relativi meccanismi di selezione del gruppo dirigente e degli eletti. Varie nomenclature passate indenni dai Ds ai Pds, dall’unione all’Ulivo, dalla Dc alla Margherita hanno la convinzione che presto o tardi le strutture di partito prenderanno il sopravvento sulle primarie, le consuetudini sulle regole, gli interessi sulla rappresentanza con buona pace della rottamazione.

Calati giunco che la tempesta passa, con questo motto parlamentari con tatuata sulle natiche la falce e martello, consiglieri affascinati da Rosy Bindi, dirigenti per i quali D’Alema è un mito si sono rattamente improvvisati renziani. Nulla di nuovo, stanno nella tradizione trasformista che gode di cattiva fama ma ha anche un suo coté nobile: di adattamento realistico ai cambiamenti, di convergenza sui problemi circoscritti; in fondo Depretis altro non era che una sinistra storica che cercava di coinvolgere i moderati governativi.

Di nuovo c’è invece la sottovalutazione della fortissima valenza politica del renzismo. La scelta di governare con Alfano and friends non è dettata solo dall’opportunità numerica o dalla necessità di evitare nuove elezioni ma è una scelta di fondo: cooptare parte dei moderati nella coalizione e scaricare frange radicali. La strategia di sempre dei riformisti da Bissolati a Saragat a Craxi. Altro che ritorno ai vecchi partiti.

Tuttavia quello che è avvenuto nel parlamento non si è ancora trasferito nelle realtà locali e Pisapia rappresentava un’opzione diversa, forse minoritaria ma altrettanto vincente. Non è la prima volta che capita nella storia italiana, in tempi non lontani si parlava di giunte anomale. Le quali però avevano la loro ragione d’essere nel sistema proporzionale; da una parte erano permanente strumento di contrattazione locale ma dall’altra consentivano una dialettica anche nazionale ed erano un segno di vitalità organizzativa dei partiti, inoltre era difficile per un leader nazionale scalzare leadership locali fondate su voti, preferenze, iscritti, delegati congressuali etc.

Oggi in un parlamento dove è fondamentale non la preferenza ma l’ordine di lista deciso dal leader e in un sistema amministrativo con l’elezione diretta, che obbliga a dichiarare prima la coalizione, la giunta anomala indebolisce gratuitamente la leadership nazionale. Renzi per rafforzarsi con il passaggio elettorale ha bisogno di piena adesione alla sua linea, razionalizzare significa quindi omologare le giunte locali alla strategia nazionale.

E qui cominciano i mal di pancia della gauche. Non solo perché si tratta di imbarcare Formigoni, Lupi, Colucci che sono indispensabile sostegno del governo e scaricare i suoi avversari più irriducibili Camusso, Civati, Vendola, etc. ma perché si mette in discussione un pilastro della sinistra: l’autoconvincimento di essere antropologicamente diversi e superiori dai berlusconiani.

Per Renzi non è più così, come non è più così specularmente per molti ex Pd da Civati a Fassina che dichiara “ci siamo illusi, il vero PD è Renzi”.

Si chiude un epoca e la candidatura di Sala di cui beninteso scopriremo un pedigree rosso (il nonno socialista lombardiano, il prozio azionista, la cugina missionaria terzomondista, lui stesso sessantottino come si volle fare per Ferrante e anche elettore di Pisapia) è li a sancirlo.

Probabilmente una gestione meno simpaticamente dilettantesca da parte di Pisapia, cui Renzi generosamente e inaspettatamente aveva lasciato palla, avrebbe allungato la vita del centro sinistra attuale almeno fino alle prossime regionali ma con le sue dimissione de facto il sindaco ha preso atto che il quadro del 2011 non solo non c’è più ma è albanianamente nostalgia/canaglia riproporlo. Come è già successo ad altri sindaci i successori pur nella formale continuità di sigle e programmi hanno rappresentato un cambiamento netto, quasi una sconfessione.

Certo ufficialmente si dirà che il candidato non conta, che è prioritario il programma e che c’è la mitica carta dei valori elaborata dai saggi, che Sala si impegna a non cambiare una virgola del quinquennio arancione ma è una versione che “dura minga, non può durare” e lo sanno per primi gli assessori che si trovano ad essere tra i pochi italiani avviati celermente alla pensione senza averlo richiesto.

Ci sono solo due ultimi ostacoli su questa strada: 1) le primarie. Più che la scelta di un candidato sono un congresso di svolta, come per i partiti della prima repubblica furono il 1957 per il PSI, il 1962 per la DC il 1966 per il PCI. Vedremo se e come si faranno, certamente tutti i protagonisti, gli aspiranti tali e i comprimari dovranno esserci ed esporsi in un confronto che non potrà che essere duro.

2) il voto. E qui giova ricordare: a) che l’area centrista è ricca di personalità, di esperienza, di preferenze ma non di voti, b) che il centrodestra non ha ancora un candidato e non è detto che partire per primi sia un vantaggio.

Meditate gente meditate.

 

Walter Marossi



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