17 novembre 2015

BUTTARSI IN POLITICA (O DELL’ELEZIONE DI UN SINDACO)


(*) Memori di quanto finora avete letto, vi sarete fatta una ragione della mia collocazione politica a sinistra fin dai tempi del ginnasio. Io no.  … In queste circostanze non potevo che affidarmi fiducioso alla sinistra italiana, una palestra di masochismo senza eguali. La capacità che hanno sempre avuto i suoi dirigenti di mettersi i bastoni tra le ruote è talmente straordinaria che ho avanzato questa ipotesi: sarà pur vero che parte dei finanziamenti ai partiti di sinistra sono arrivati per molti anni da Mosca, ma dopo la caduta del muro di Berlino le elargizioni devono essere pervenute dalle casse dei partiti di destra e dalla CIA in segno di gratitudine per la nostra comprovata capacità di autodistruzione.

03scaparro40FBIn questo capitolo riporto qualche considerazione di poco conto sul piano generale ma illuminante per capire la mia esperienza di ostinato militante di sinistra. Vista la vita grama dell’abbacchio, ho creduto per molto tempo che l’aggettivo “abbacchiato” derivasse dallo scarso entusiasmo mostrato dal tenero ovino per la prospettiva di finire in tavola circondato da patate, foss’anche a tocchetti. Sono invece venuto a sapere che è chiamato “abbacchiato” il frutto dotato di guscio buttato giù dall’albero con un bastone, baculum in latino. Chi usa il bastone non va spesso per il sottile e fa cadere anche frutti non maturi che restano lì per terra, abbattuti e non utilizzati, sviliti e, chissà, forse anche avviliti. Pensatela come vi pare ma gli ambienti politici che frequento mostrano spesso la stessa vitalità del terreno ricoperto di frutti abbacchiati e abbandonati al loro destino.

Dopo tante batoste elettorali, mi direte, non c’è da attendersi molto di diverso. E invece no, qualcosa di sorprendente sta avvenendo. L’abbacchiato non si limita a giacere a terra inerte dopo la bastonata ma dà segni di vita, tenta di sollevarsi e teorizza. La teoria dell’abbacchiato, in estrema sintesi, parte da questa constatazione: ogni volta che ha concrete possibilità di arrivare al potere, la sinistra fa di tutto per impedire a se stessa di giungere felicemente in porto. I più arditi tra gli abbacchiati sostengono che essendo la sinistra portatrice, almeno in linea di principio, di valori di solidarietà, pace e giustizia sociale, nel momento in cui si avvicina alla stanza dei bottoni prende d’improvviso coscienza dell’impossibile convivenza tra quei valori e l’esercizio del potere, si arresta sulla soglia della sala comando e comincia a menarsi furiose zappate sui piedi. Non credono, gli abbacchiati, che solo chi cade può risorgere, ma si muovono con estrema cautela nel timore che chi risorge possa cadere in tentazione.

Le riunioni degli abbacchiati negli ultimi anni hanno spesso luogo nei salotti per evitare il frastuono, la volgarità e gli eccessi della piazza e terminano di solito con affermazioni del tipo “siamo così, non c’è niente da fare, è nel nostro DNA”, “siamo gente da opposizione”, “ci sono stati troppi compromessi”, fino agli immancabili “pubblichiamo una rivista, magari online” e “facciamo un governo ombra e non diamo tregua alle destre”. A notte fonda l’assemblea si scioglie con la promessa di rivedersi presto per gettare le basi di un nuovo movimento di mutuo soccorso tra abbacchiati.

Chiuso nella serena contemplazione di se stesso come anima bella, l’abbacchiato non vede nello specchio né rughe né difetti, non ritiene di avere bisogno di cure radicali per recuperare vecchi e nuovi ammiratori. Si guarda, si trova ancora piacente con quella sua aria malinconica, si sussurra “chi non mi vuole non mi merita”, si spruzza un po’ di profumo, indossa un vestitino non appariscente ed esce a fare le pulci alla destra con chi la pensa come lui.

Eppure eventi stupefacenti e carichi di presagi avevano accompagnato, com’è tradizione, la fine del millennio e avrebbero dovuto fare riflettere sull’imminenza, se non di epocali cambiamenti, almeno di sorprendenti ritorni. Basti pensare, per limitarci al Bel Paese, alle ripetute vittorie della destra, alla riesumazione del fascismo, alla messa in discussione dell’intera Costituzione, alla ricomparsa di populismi e regionalismi esasperati, ideologie, comportamenti e privilegi che si pensavano ormai divenuti reperti archeologici.

Già qualche anno prima della fine del secondo millennio erano comparse le avvisaglie del grande cambiamento nei messaggi ufficiali dei potenti, da quelli del mondo fino ai rappresentanti di zona e agli amministratori di condominio. Abbondavano espressioni quali “alle soglie del terzo millennio” o “nel millennio che volge al termine” che conferivano solennità e valore profetico a discorsi non di rado di infimo ordine e destinati a durare quanto la fiamma di un cerino. I millenaristi erano tornati, anche nella versione gaudente di chi si limitava a progettare un capodanno del Duemila all’insegna della bisboccia in uno scenario da ultima notte in prima classe sul Titanic.

Come è meraviglioso tutto ciò, sembra dire la sinistra italiana che aveva iniziato il XX secolo piena di coraggio e speranza e lo sta terminando nel segno dello stupore, o meglio in stato stuporoso. Trova tutto sorprendente, assiste a bocca aperta alla comparsa in forza dei nuovi potenti. Come la gentil farfalletta “tra l’erbetta a volo sorpresa” sembra chiedere al nuovo pacco inviato dalla Provvidenza “vivendo, votando, che male ti fo?” C’è di che andare in giro con naso e baffi finti per non farci riconoscere da figlie e figli, se è vero che tutto questo un giorno sarà loro.

Quando discutiamo con i ragazzi su chi votare alle prossime elezioni, li mettiamo di fronte alla prospettiva di scegliere per quale ex votare, ex comunista, ex socialista, ex fascista, ex democristiano, e perfino non pochi ex “ex”. È un ex voto quello che proponiamo loro ma non si capisce per quale grazia ricevuta.

Potrei ribellarmi e diventare un ex elettore ma non ci riesco. Da quando ho raggiunto la maggiore età, la mia parte politica ha perso tante elezioni ma io non me ne sono persa una. Un vero serial loser, perdente seriale. Eppure credo che, da buon masochista, insisterò almeno fino a quando mi sarà consentito. Provo un’istintiva diffidenza nei confronti di coloro che teorizzano e praticano il salto della quaglia come principio di vita.

Gli ex hanno un pregio, la creatività, che si manifesta appieno nella scelta di nuove sigle e nuovi simboli con cui mimetizzare vecchi e non più presentabili schieramenti. La sinistra si è distinta in questa frenetica opera di restyling producendo un numero prodigioso di nuovi acronimi che, per limitarmi all’ex Partito comunista, ha portato alcuni tra i compagni più anziani a perdere l’orientamento, passati come sono da PCI a PDS a DS a PD nel giro di pochi anni. L’ablazione graduale e apparentemente indolore della falce e martello ha costretto mia suocera, ultranovantenne cattolica e comunista, a rifiutarsi di votare perché non trovava più il simbolo su cui aveva messo la croce fin dal secondo dopoguerra. Non è facile per molti di noi accettare l’idea che oggi l’unico PC che va per la maggiore sia il Personal Computer.

Nell’opera di restauro della facciata, la sinistra si è come suo solito divisa nella ricerca di una via botanica al socialismo. Sarebbe stato più semplice riunirci tutti pudicamente sotto la collaudata foglia di fico e invece ci siamo messi a ravanare tra garofani, rose, margherite, ortaggi, querce, ulivi, arbusti e licheni per nascondere falci, martelli, libri, bandiere rosse e soli dell’avvenire che non potevano più comparire sulle nostre bandiere. Mentre gli avversari andavano al sodo affidandosi a croci, tricolori al vento, guerrieri con spada sguainata, slogan e facce a loro avviso rassicuranti, noi consultavamo freneticamente Linneo di cui per fortuna ignoravamo l’anagramma “o lenin” che ci avrebbe messi in allarme.

Io vivo a Milano. Qui la sinistra ha dato negli ultimi anni il meglio di sé per togliersi di mezzo. In un libro come questo, dedicato alle cure palliative per i dolori del terzo tipo non si può non accennare a questo luminoso esempio di autosabotaggio. Gli ottimisti ritengono che siamo vicini al fondo e il futuro non potrà che essere migliore. Mentre sguazziamo nel fondale assistiamo però a fenomeni inquietanti come la salottizzazione della politica a cui ho accennato poco fa.

Nel 1348 un’allegra brigata di giovani aristocratici si era rifugiata sulle colline fiesolane per sfuggire al contagio della terribile pestilenza che infuriava a Firenze. Come nel racconto di Boccaccio, a Milano non si contano i salotti buoni nei quali si riuniscono in tempo di peste gruppi scelti di intellettuali, artisti, professori universitari, aspiranti a cariche politiche, politologi dilettanti. Tutti impegnati a sviluppare il seguente ordine del giorno: a) la città non merita questa amministrazione così distante dai cittadini; b) ci vuole un colpo d’ala, ma …; c) la sinistra si è dissolta; d) (fuori sacco) dove si va in vacanza quest’estate?; e) (fuori sacco) film e ristoranti consigliati.

Immancabilmente ampio e approfondito è il dibattito su chi, come e perché ha dilapidato il glorioso patrimonio, sempre esclusi i presenti, si intende. Fin qui non c’è nulla di male, siamo in pieno in quell’atmosfera che Flaubert ha descritto nel suo Dizionario dei luoghi comuni che troviamo in tanti salotti buoni, politicizzati o meno.

La particolarità dei salotti da me conosciuti è che con l’accalorarsi della discussione i convitati vengono colti da una sorta di delirio di onnipotenza, il salotto diventa l’ombelico del mondo, in una sorta di esaltante crescendo orgasmico che produce l’inevitabile richiesta di individuazione ed elezione di un nuovo sindaco. Si costituisce un abbozzo di lobby a sostegno del malcapitato con relativa raccolta di firme eccellenti per un appello al popolo. Questo fenomeno di esaltazione collettiva è forse dovuto alle abbondanti libagioni e questa non sarebbe una novità.

Come ricorda una brillante studiosa italiana della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, Pennsylvania, Erodoto narra che, prima di prendere una decisione importante, i Persiani ne discutevano in stato di lieve ebbrezza e il giorno successivo, di nuovo sobri, riconsiderata la decisione, se l’approvavano essa veniva adottata. La procedura valeva anche al contrario per le persone che prendevano una decisione senza alzare il gomito perché più tardi, riunitesi di nuovo, davano fondo agli orci e se ancora restavano della stessa opinione, la decisione era confermata.

Questa seconda procedura mi lascia dubbioso perché per alcuni di loro doveva essere difficile, se non rispettavano la consegna della lieve ebbrezza, rendersi conto di ciò di cui stavano straparlando. È probabile che sia questa la situazione predominante in alcuni dei pensatoi milanesi, a dimostrazione che l’alterazione artificiale degli stati mentali non sempre produce buoni frutti.

Un’amica mi ha mandato nel marzo del 2001 un documentato elenco di nomi di candidati della sinistra alla poltrona di sindaco apparsi sulla stampa negli ultimi mesi: ne ha contati quarantuno. Non ci crederete, ma un buontempone aveva fatto anche il mio nome, buon segno per chi come me apprezza l’umorismo. Comunque tutti i personaggi elencati, senza eccezione, furono abbattuti dal fuoco incrociato di quelle che eufemisticamente vengono chiamate le diverse anime della sinistra, più o meno un migliaio secondo i miei calcoli. Fuoco amico, dunque, ma vai a spiegare al piccione impallinato al poligono di tiro che in fondo si tratta solo di sport.

Tolto qualche nome spinto dagli apparati locali o nazionali, tolto qualcuno la cui fama lo rende un “candidato naturale”, tolti quei pochi che si sono mossi già da tempo, il delirio salottiero non riesce a produrre granché. Di sentire gli umori dei cittadini, di contare su un minimo di consenso popolare, di lavorare su un programma prima che sui nomi, neanche a parlarne. E pensare che questa città un tempo era famosa anche per i salotti aristocratici e borghesi, prima e dopo quello della contessa Maffei, malvisti dalle autorità perché considerati luoghi ospitali per idee sovversive.

In una calda sera di inizio estate, io e i miei amici ci trasferimmo dal salotto al terrazzo per trarre ispirazione dalla vista dall’alto della città sul cui destino stavamo riflettendo. La boccata d’aria fresca e il ricco buffet approntato per l’occasione stuzzicarono l’appetito prima delle idee. Fu allora che pensai di suggerire il metodo Godwin sia per la selezione dei nostri candidati sia per valutare quelli altrui.

Avevo già avanzato la proposta, senza successo, qualche anno prima in occasione del centenario della prima edizione di Tre uomini in barca (per non parlar del cane), libro che ha alleviato i tormenti della mia adolescenza e ha consentito a Jerome Klapka Jerome di accedere al mio pantheon privato. I biliosi critici del tempo inorridivano alla lettura dell’esilarante avventura dei tre amiconi sul placido Tamigi, così ricca di eventi del tutto insignificanti, ma l’eccezionale successo di pubblico fece giustizia.

Ora che mi sono sfogato, apriamo Tre uomini in barca. I tre amici sono in navigazione tra Picnic Point e Old Windsor. Jerome racconta: “Old Windsor è un posto famoso a suo modo. Edoardo il Confessore aveva qui un palazzo e qui il conte Godwin fu considerato dalla giustizia dell’epoca colpevole di aver provocato la morte del fratello del re. Il conte Godwin prese un pezzo di pane in mano. ‘Se sono colpevole’, disse, ‘possa questo pane soffocarmi mentre lo mangio!’ Mise il pane in bocca, lo inghiottì, soffocò e morì.

Il metodo Godwin, benché semplice nell’esecuzione e sicuro nei risultati, non convinse i miei amici e non perché ci fosse incredulità nella possibilità di un evento del genere. Non è certo la fede nei miracoli che manca a chi ha una lunga militanza nella sinistra. La mia proposta fu bocciata perché non teneva conto dei candidati a dieta, di quelli che amano sostituire il pane con grissini o cracker, dei celiaci e del voto dei fornai timorosi della possibile pubblicità negativa.

Che nessuno di noi, quella sera, abbia assaggiato le tartine e i tramezzini preparati dai padroni di casa è un fatto che dà da pensare.

Fulvio Scaparro

 

(*) Brani tratti dal capitolo “Buttarsi in politica” da L’antispocchia di Fulvio Scaparro, Bompiani, Milano, 2015

 

 



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