11 novembre 2015

NON SOLO EXPO, MA MILANO. L’OPZIONE ZERO


In merito al dibattito sul futuro delle aree dove si è svolta l’esposizione universale, vorremmo incominciare la nostra riflessione con una provocazione: è proprio necessario fare qualcosa? Il punto di partenza di ogni analisi sul benessere deve essere il raffronto dell’effetto di ogni possibile soluzione rispetto all’opzione zero: ovvero lasciare l’area così come si presenterà a fine giugno 2016, quando tutte le attività di smantellamento saranno concluse, senza realizzare perciò nuove infrastrutture.

Il dibattito, finora si è solo concentrato sul cosa fare, sulla governance del post-Expo e – marginalmente – delle risorse necessarie, dando per scontato che l’area di default debba essere riutilizzata. Questo essenzialmente per tre motivi: il primo è legato all’accordo di programma siglato fra i vari enti partecipanti e alla necessità di sviluppare una legacy materiale e immateriale dell’evento; il secondo per giustificare l’investimento di Comune e Regione nell’acquistare le aree su cui è sorta l’esposizione universale; il terzo, infine è rappresentato dall’esigenza di evitare il degrado delle infrastrutture realizzate per Expo.

Proviamo quindi a osservare la situazione dal punto di vista del decisore pubblico, che, almeno in teoria, dovrebbe massimizzare il benessere sociale. Ciò vuol dire provare a stimare gli impatti economico-sociali (e non solo finanziari) delle varie opzioni, per poter determinare quale arrechi maggior benessere alla comunità (e non solamente ad alcuni sui membri).

L’impatto economico-sociale dell’opzione zero è relativamente semplice: una perdita, peraltro quasi tutta in capo a Comune e Regione, pari al costo di acquisto e sviluppo delle aree, quindi nell’intorno dei 300 milioni di euro. A questa perdita economica e finanziaria, non ci sarebbe da aggiungere in sostanza alcuna disutilità subita da altri soggetti perché prima di Expo in quell’area, racchiusa da due autostrade e costeggiata dalla ferrovia, non sorgeva nulla.

A fronte di una perdita secca di benessere generata dall’opzione zero, bisogna valutare i possibili impatti sul benessere delle altre opzioni sul tavolo. Per ciascun’opzione, si tratta di valutazioni complesse, che richiedono inevitabilmente tempo. Ci preme però rilevare che, per un decisore pubblico, dovrebbe essere sempre cruciale determinare l’effetto complessivo di ogni ipotesi. A questo proposito, proviamo ad argomentare, utilizzando come esempio la realizzazione di un nuovo campus universitario in cui troverebbero sede le facoltà scientifiche dell’Università Statale (siamo coscienti del fatto che il progetto citato occuperebbe solamente una parte del sito, ma il ragionamento vale per tutte le soluzioni di insediamento di funzioni pubbliche).

Semplificando molto e utilizzando valori ipotetici, da un punto di vista finanziario, per i partecipanti pubblici, potrebbe succedere che: 1) La Statale vende aree ed edifici di Città Studi a privati con un ricavo ipotetico di 300 milioni di euro; 2) La Statale compra le aree da Arexpo SpA e sviluppa il campus sul sito di Expo con una spesa di 300 milioni per l’acquisto dei terreni e di circa 300 milioni per gli edifici; 3) Comune e Regione incassano 300 milioni di euro dalla Statale, rientrando dell’investimento iniziale; 4) La Statale si ritrova con maggiori debiti per 300 milioni di euro.

Se la copertura dei 300 milioni fosse affidata alla Statale o a un aumento dei fondi destinati all’università dal MIUR, a livello Pubblico non avremmo ottenuto alcun beneficio finanziario, ma avremmo semplicemente spostato il costo da un ente a un altro. Ipotizzando che dalla vendita del patrimonio immobiliare dell’Università Statale si ricavino 300 milioni di euro e che il costo di realizzazione sia uguale o inferiore a una stima di 300 milioni di euro, quest’opzione, almeno dal punto di vista finanziario del Pubblico, sarebbe preferibile all’opzione zero. Da un punto di vista del benessere sociale occorrerebbe però fare ulteriori considerazioni sugli effetti di un campus extra urbano rispetto a una sede cittadina in termini di: ° Attrazione di studenti, ricercatori e docenti; ° Produttività scientifica; ° Capacità di collaborare con imprese private e altri atenei; ° Capacità di generare nuove iniziative imprenditoriali.

Solo a valle di una siffatta valutazione differenziale, si potrebbe determinare l’impatto sul benessere sociale di ogni opzione sul tavolo rispetto all’opzione zero, tenendo in considerazione il fatto che tutte le opzioni avrebbero un certo grado di incertezza e che, pertanto, gli effetti ipotizzati potrebbero poi non verificarsi. Queste considerazioni dovrebbero essere accompagnate da un’altra importante domanda e cioè cosa succederà delle aree lasciate libere in città dall’università. Limitarsi a spostare da una zona all’altra della città delle funzioni rischia seriamente di non incrementare il benessere collettivo: detto in altre parole, perché il gioco valga la candela, 2+2 dovrebbe fare 5 e non 4.

Le indiscrezioni trapelate sui giornali, inoltre, parlano di un costo pressoché completamente a carico del pubblico nelle nuove aree; le risorse private dovrebbero “limitarsi” a intervenire nell’acquisto delle aree liberate da Statale. Sul ruolo del privato occorre chiarire che in termini di benessere sociale è indifferente che l’onere del costo finanziario sia sostenuto dal Pubblico o dal Privato. Volendo fare l’ipotesi estrema che Comune e Regione decidano di non ripagare il debito contratto con le banche per l’acquisto dei terreni su cui è sorto Expo al fine di ridurre il costo dell’operazione nuovo campus, a fronte di un beneficio finanziario per gli Enti Pubblici, si avrebbe una perdita finanziaria per un ente privato.

Un ragionamento simile vale nel caso in cui per i privati che rilevassero le proprietà dell’Università Statale non dovessero riuscire poi effettivamente a realizzare quanto atteso. Questo scenario è più di un’eventualità data la sovrabbondanza di metri quadri che negli ultimi anni sono stati immessi e saranno immessi sul mercato in seguito a altre operazioni di riqualificazione urbana.

Da questi ragionamenti si capisce quanto sia importante definire un’opzione zero, un termine di confronto che consenta di soppesare davvero i pro e i contro e valutare gli effetti in termine di benessere sociale di ciascun progetto. Troppo spesso in passato si sono compiute scelte per massimizzare i ritorni finanziari – vedi l’ex area fiera in cui l’obiettivo era raccogliere le risorse necessarie a costruire il nuovo sito – senza pensare davvero agli impatti di queste operazioni sulla città. L’assenza di grande interesse da parte dei privati (indice, quantomeno, di un’incapacità da parte del mercato di definire possibili soluzioni per l’area – assenza che, a nostro avviso, meriterebbe più di una riflessione), sembra implicare che la maggior parte delle risorse saranno pubbliche: pertanto, bisogna decidere con molta cautela.

Occorre infine essere consapevoli che per ogni opzione che preveda lo spostamento di funzioni – come l’università – la valutazione debba essere duplice e riguardare sia le aree Expo sia le aree “liberate” in città. Questa valutazione è particolarmente importante in una zona come Città Studi, che ha perso negli ultimi anni due ospedali, l’Istituto Tumori e il Besta, che si sposteranno nella “Città della Salute” nelle ex aree Falck a Sesto San Giovanni. Né si può ignorare il progetto di riqualificazione degli scali ferroviari, che porterà a immettere nei prossimi anni sul mercato 674.000 metri quadrati di nuova superficie abitativa/commerciale a cui si aggiungono gli invenduti di Porta Nuova e l’ex Area Fiera.

Per questi motivi non ci sentiamo di escludere a priori l’Opzione Zero, perché alla fine potrebbe paradossalmente rivelarsi la miglior scelta da un punto di vista sociale. Non è un caso che in un intervento apparso sul Corriere delle Sera il Sindaco Pisapia abbia indicato funzioni “additive” e leggere sulle aree che non tolgano alla città ma aggiungano. L’Expo nel progetto originale doveva essere fatto da orti e serre, forse un’opzione “Zero Più” coglierebbe meglio la legacy dell’evento rispetto a grandi progetti messi insieme frettolosamente.

 

Federico Pontoni e Niccolò Cusumano

 

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