28 ottobre 2015

musica – BRUNELLO E LUCCHESINI


BRUNELLO E LUCCHESINI

Finalmente un concerto di qualità sublime, uno di quei rarissimi eventi (“evento” è diventata una brutta parola, ma in certi casi è proprio giusta) che toccano l’estrema profondità del sentire e del pensare la musica. Possiamo aver ascoltato migliaia di volte le Sonate per violoncello e pianoforte di Beethoven, ma per trovare nella memoria l’eco di una interpretazione di livello paragonabile a quella che ci è stata offerta martedì scorso al Conservatorio bisogna tornare al duo Rostropovič – Richter, o più recentemente al sodalizio Filippini – Campanella.

musica37FBIl concerto con cui si è inaugurata la (centocinquantunesima!) stagione della Società del Quartetto ha proposto subito, in apertura, il ciclo completo delle Sonate e Variazioni per violoncello e pianoforte di Beethoven affidandole a Mario Brunello e ad Andrea Lucchesini; si tratta delle cinque Sonate e dei tre gruppi di Variazioni (due su temi del Flauto magico di Mozart e uno su un tema del Giuda Maccabeo di Händel) suddivise cronologicamente in due serate. La prima comprendeva le due Sonate dell’opera 5, le Dodici Variazioni dell’opera 66 e le altre 12 dell’opera WoO 45 (“Werke ohne Opuszahl” è l’opera senza numero di catalogazione); la seconda, che si terrà fra due settimane e che è assolutamente proibito perdere, comprenderà le Sette Variazioni della WoO 46, la Sonata opera 69 e le due Sonate dell’opera 102.

Ascoltare l’intero ciclo dell’opera beethoveniana per il violoncello – che in quegli anni usciva dal ruolo servile del basso continuo e poco a poco sostituiva la molto meno espressiva e versatile viola da gamba – è già una golosa occasione e una grande gioia, per la bellezza in sé della musica e per la voce impareggiabile dello strumento; sentire le due parti dell’intero ciclo a così breve distanza di tempo significa anche capire il percorso di Beethoven attraverso l’esperienza della composizione. Basti dire che l’opera 5 e le prime due serie di Variazioni sono state scritte negli anni 1795-98, quando l’autore aveva venticinque/ventotto anni e dunque ancor prima della sua prima Sinfonia, le ultime Variazioni scavalcano il secolo (pubblicate nel 1802 sono coeve del tragico “testamento di Heiligenstadt” e della seconda Sinfonia), l’opera 69 del 1808 (l’anno della sesta, la Pastorale) e con l’opera 102 siamo nel 1815 (dopo l’ottava ma nove anni prima della nona), uno degli anni difficili della sua esistenza privata e della sua passione civile.

Veniamo al primo concerto e a quella magnifica esecuzione; due sono le parole che vengono in mente riflettendo su quella magica serata: intimità e respiro. Intimo era il dialogo fra i due musicisti (fusi in un unico modo di sentire e di esprimersi), intimo il rapporto degli interpreti con l’autore (nessuna discrepanza fra il testo scritto e la sua fisica rappresentazione), ancor più intima l’intesa fra musicisti e pubblico, un’intesa amorosa e pensosa, che non lasciava spazio a distrazioni, divagazioni, straniamenti. Tutti insieme, lì, sulle note, per non perdere il filo e goderle una ad una, comprenderne il senso e il valore, accoglierle come una confessione o una dichiarazione d’amore. Il vero piacere dell’intimità, che non è da tutti conoscere né da tutti saper apprezzare.

E poi il respiro, il respiro della musica, quel respiro profondo che quando lo senti – quando c’è – ti porta lontano, è una forma di levitazione dello spirito, quasi anche del corpo, il respiro della vita; ti accorgi che la musica “è” la vita, la sua più profonda rappresentazione, di più, è l’anima stessa della vita. Brunello e Lucchesini, due cinquantenni con i capelli grigi, due vite e caratteri molto diversi – come ha spiegato Oreste Bossini nella sua bella introduzione al concerto – che suonano insieme da venticinque anni e suonando insieme hanno trovato una intesa perfetta e naturale, e grazie a quella ci introducono nella stanza segreta accessibile solo agli eletti, a coloro che sanno ascoltare. Intimità e respiro messi ancor più in risalto nel bis e cioè dal tenerissimo ultimo dei tre Lieder opera 83 per voce e pianoforte – incontro fra Beethoven e Goethe favorito in quell’anno 1810 dall’ineffabile Bettina Brentano – con il violoncello che ha “cantato” al posto del baritono senza farne patire la nostalgia.

È incredibile che per un concerto di tale rarissima qualità non ci sia stata un tutto esaurito e una coda in biglietteria del tipo di quelle che abbiamo visto per eventi molto meno emozionanti come i padiglioni dell’Expo o alcune mostre di Palazzo Reale; vedremo se la coda ci sarà per la seconda parte, la sera del 10 novembre, in cui ascolteremo un Beethoven assai più maturo (era fra i quaranta e i cinquant’anni) e perfettamente consapevole della responsabilità che gli derivava da una fama ormai consacrata.

Già che parliamo di concerti a venire, segnalo che la programmazione della Società del Quartetto – e dunque del suo direttore artistico Paolo Arcà, che l’ha riportata ai livelli che storicamente le competono – prevede per questa stagione, subito dopo la conclusione del ciclo beethoveniano, un interessante e inusuale concerto dedicato a musiche europee del settecento (17 novembre) con il possente baritono Klaus Mertens (molto noto ai frequentatori del ciclo delle Cantate bachiane) e con Ton Koopman e la moglie Tini Mathot alle tastiere (clavicembalo, organo e fortepiano); e poi, prima di Natale (il 15 dicembre) quasi da mettere sotto l’albero, il Winterreise di Schubert con Ian Bostridge accompagnato dall’inseparabile Julius Drake. Altri due concerti da non perdere.

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



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