14 ottobre 2015

EXPO VERSO POST-EXPO: QUALI LEZIONI PER IL FUTURO?


I molti contributi analitici sbocciati negli ultimi mesi e settimane su Expo- Post-Expo e tra questi anche quello del Commissario Expo sulle pagine del Corriere della Sera assieme a tanti altri chiariscono abbastanza bene una delle traiettorie portanti sulle quali indirizzare gli impatti di Expo nei prossimi mesi e anni e come trasferirne gli effetti positivi nel medio – lungo termine: la promozione del turismo in chiave di sviluppo delle relazioni internazionali derivate dall’evento e del suo mix tra buon livello di servizio, cultura, paesaggio e gusto dell’Italian
life style che sono stati enfatizzati nelle aspettative degli utenti, assegnando continuità nelle capacità di attrarre e – soprattutto trattenere – gli utilizzatori effettivi e potenziali (consumatori, investitori, imprese, istituzioni).

02pilotti35FBUn Grande evento deve innanzitutto essere un mezzo (di sviluppo, di benessere, di qualità del contesto, di consapevolezza dei fattori di forza e debolezza) e non un fine, cogliendo “prima” cosa e come verrà trasferita la sua eredità “dopo” e disegnandola proprio con questa scansione temporale. I tanti failures di non poche precedenti manifestazioni universali sono derivati da questo punto. Una prospettiva che può aiutarci a capire e scegliere la strada migliore per il dopo che ora sembra delinearsi all’orizzonte con la decisione del Governo di fare la sua parte in un progetto che è di scala europea, non solo milanese o lombarda.

Ma si può e si deve allargare lo sguardo indagando proprio quelle aspettative che l’evento a tutta evidenza, nonostante le (spesso improprie) critiche iniziali – ha sospinto e alle quali ha saputo dare risposte concrete per affidabilità del servizio, continuità e livello di prestazione. Uno degli epifenomeni, le code, apparentemente interminabili, e tuttavia sempre ordinate e ben canalizzate, vanno lette come una domanda crescente del rilievo dell’Italian
Life Style nel mondo da una parte e, dall’altra, anche e forse soprattutto come espressione di una forte domanda di partecipazione certo non “al ristorante globale” – come detto incautamente – ma quale segnale inequivocabile di volere contribuire al “cambiamento del mondo”.

Un cambiamento che parte dalla più antica tecnologia della vita che è il cibo con le filiere produttive derivate dell’alimentazione e dell’agro-industria (della ristorazione come del turismo ovviamente), così come della ricerca e innovazione che queste piattaforme di produzione e consumo (sempre più integrate e ben sintetizzate dalle figure dei prosumer) trascinano inevitabilmente. Quindi il tema “Feeding the Planet Energy for Life” si è rivelato ben focalizzato e del tutto coerente con la nostra storia passata recente e (probabilmente) futura, anche perché capace di intercettare le grandi sfide planetarie: climate change, fame, scarsità dell’acqua, diseguaglianze, education, accessibilità alle risorse.

È dunque, potremmo dire, l’avanguardia “normale” di un “popolo planetario” a essere stata presente a Expo per cambiare il mondo a partire dai giovani e dalle donne innanzitutto nella responsabilità e sostenibilità della ricerca di un nuovo rapporto tra uomo e natura, tra cultura e tecnologia, tra paesaggio e urbanesimo, tra territori e infrastrutture, tra manuale e intellettuale da consegnare alle nuove generazioni.

Accoppiamenti che ‘800 e ‘900 avevano cercato inesorabilmente di separare e che oggi vanno invece ricomposte e sui quali si sono addensati molti insegnamenti e lasciti di questa Esposizione Universale così diversa da quelle originarie del 1750 e del 1851, entrambe a Londra a “mostrare” i “salti” delle prime due rivoluzioni industriali relativamente a prodotti e tecnologie idrauliche e meccaniche, perché pone al centro le relazioni tra persone e culture, l’ambiente nel quale vivono e la conoscenza utile per migliorare la convivenza “sostenibile e responsabile” dell’umanità intera.

Infatti sono almeno altre tre le dimensioni che vanno rilette per cogliere appieno l’impatto di Expo sulle capacità attrattive e che riguardano gli utenti primari (i loro comportamenti), le imprese (le loro forme e traiettorie di crescita e di internazionalizzazione) e le istituzioni (nazionali e internazionali) e per potere dare continuità ai diversi (micro e macro) insegnamenti (che illustrano le nostre forze e anche le nostre debolezze) che – ora che ci avviamo alla sua conclusione – ne possiamo derivare assieme a quelli già ricordati dai molti osservatori per delinearne con più compiutezza gli effetti eco-sistemici ai quali dobbiamo dare indirizzo rinforzando ciò che Expo 2015 ha seminato.

Le culture di consumo sono forse quelle più enfatizzate dall’evento richiamando a comportamenti sobri e responsabili e soprattutto solidali nell’uso/accesso delle/alle risorse e che si possono sintetizzare nel “consumare meno per consumare meglio” e in questo modo “vivere meglio” nel rispetto degli altri e dell’ambiente nel quale siamo inseriti e con il quale interagiamo e dal quale apprendiamo, ripresi opportunamente nel protocollo disegnato dalla Carta di Milano.

Un consumo attento non spreca, perché lo spreco del cibo è soprattutto distruzione di lavoro, di risorse e di tempo oltre che di saperi e di varietà degli stessi. L’Esposizione Universale di Milano ci ha stimolato in questo a una continua curiosità verso l’altro e alle fonti della vita e in questo coltivando la varietà (di prodotti, colture e culture, di processi moderni e pratiche antiche di produzione e consumo come di canali distributivi) e che vuole fare incontrare una globalizzazione dei sapori con quella dei saperi perché nulla venga spento, magari facendo dialogare i contadini africani e McDonald, le donne sudamericane e la Nestlè, Ferrero e i produttori di olio.

Expo come ponte ambizioso tra global e no-global, tra Carlin Petrini e la Coca Cola. Tutto ciò richiede la disponibilità alla fruizione di convivialità, di mercati che diventano dunque “conversazioni” che “superano” un individualismo auto-interessato per aprirsi a una relazione con l’altro e con la comunità di riferimento che è sempre più locale e globale insieme. Una comunità ben simulata da Expo in Città e le decine di migliaia di eventi che hanno coinvolto e partecipato un’intelligenza planetaria in forme collaborative anche inaspettate, creative, con migliaia di piccole e grandi invenzioni sperimentate dal cibo all’elettronica, dalla sicurezza alla casa fino alla cultura e all’arte e che forse troveranno diffusione nei prossimi mesi e anni ma che già nella sharing econmy o nel coworking trovano spinte e realizzazioni di interesse dove Milano sta facendo da apripista. Abbiamo imparato ad agire come comunità aperte e permeabili all’innovazione e al cambiamento nella varietà delle interdipendenze tra proposte globali e locali nel “superamento” di consumi e produzione di massa di un paese che può competere se saprà sviluppare la “personalizzazione di massa” (mass customization) essendo la palestra di piccola e media imprenditorialità più ampia e creativa del mondo.

L’Italian
Life Style così come il Made in Italy guardano proprio a un consumo personalizzato di massa veicolato da migliaia di PMI che – in connessione complementare con medie e grandi imprese – oggi domandano infrastrutture adeguate (banda larga, scuola, formazione, mobilità, accesso a risorse finanziarie) e che tuttavia oggi richiedono approcci di filiera per la porosità intersettoriale emergente che lega prodotti ai servizi e ai processi che li generano in specifici contesti: dal cibo all’agroindustria alla ristorazione, dalla robotica alla meccanica strumentale, dalla chimica alla farmaceutica fino alla nutriceutica. Filiere che agiscono dentro precisi contesti territoriali che fanno la qualità dei loro prodotti finali se quel territorio è attrattivo e accogliente, tollerante cioè se diventa capitale sociale, come dicono Giacomo Becattini e Richard Florida. (continua)

Luciano Pilotti

ArExpo SpA e Università di Milano

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